Da Lacan ad Almodovar. Cambiare la vita cambiando pelle

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“Io cerco il volto che avevo/ prima che il mondo fosse creato”. Alessandra Lemma è una psicoanalista, ma ricorre ai versi di Yeats per dire quel desiderio onnipotente di un corpo non ancora contaminato dallo sguardo dell’altro e dalla consapevolezza della fragilità  che segna la condizione umana.

«Il corpo – dice l’analista – si può sentire come aperto o chiuso, comunicativo o monadico, come il luogo dell’incontro o del rifiuto, ma inevitabilmente “siamo degli esseri guardati, nello spettacolo del mondo”, per usare l’espressione di Lacan: esposti ai pensieri e ai sentimenti degli altri, senza poterli controllare. Il corpo quindi rimanda da sempre all’identità  anche sociale, ma oggi è qualcosa di diverso, è un “progetto personale”, è la versione di noi stessi che preferiamo, con un’implicita presa di distanza da quello che siamo e non vogliamo essere».
Nata a Genova ma da sempre a Londra, Alessandra Lemma ha scritto un libro sulle ragioni profonde che portano donne e uomini di ogni età  a modificare il corpo, attraverso pratiche diffuse come la chirurgia estetica, i tatuaggi, i piercing. Ha quarantacinque anni, insegna all’University College London, appartiene alla British Society of Psychoanalysis, è l’editor di una prestigiosa collana pubblicata da Routledge, lavora alla Tavistock Clinic legata a grandi nomi come Winnicott, Bion, Bowlby. All’attivo ha una quindicina di libri, ma questo è il primo uscito da noi e s’intitola Sotto la pelle (Cortina, prefazione di Vittorio Lingiardi e Monica Luci, pagg. 230, euro 24).
Perché è così necessario, se non compulsivo, il desiderio di cambiare la pelle che si abita, per dirla con il film di Almà³dovar?
«Perché – per la difficoltà  di “rappresentare” quello che si è vissuto e spesso brucia ancora – le parole e i pensieri vengono rimpiazzati da azioni sul corpo e a volte contro il corpo, lì dove concretamente si localizza il sentimento dell’insufficienza. Per quella che è la mia esperienza clinica, un nuovo tatuaggio come l’ennesima iniezione di botox possono servire a non crollare emotivamente. Sono casi in cui le emozioni negative – come l’inadeguatezza, la colpa, la rabbia, l’odio – emergono da “sotto la pelle” a “sopra la pelle”. Il corpo diventa allora una tela che esprime le fantasie più inconsce».
Rivendicazione, corrispondenza perfetta, autocreazione: lei usa espressioni apparentemente bizzarre per definire queste fantasie. Intanto cos’hanno in comune?
«Anche se corrispondono a stati mentali qualitativamente molto diversi, è identica la loro finalità  così spesso illusoria: quella di sostenere un equilibrio psichico precario… Parlo di fantasia di rivendicazione quando il soggetto vive il corpo come estraneo avvertendo dentro di sé una specie di “oggetto inquinante”, una presenza aliena: lo modifica per dichiararne la proprietà , lo rivendica, appunto… La corrispondenza perfetta è invece la fantasia che sostiene la ricerca di un corpo perfetto come garanzia di amore e di desiderio da parte di un partner altrettanto perfetto: quella che chiamo “fusione di un Sé idealizzato con un oggetto idealizzato». La fantasia di autocreazione implica che il nostro corpo ci “disturba” perché per qualche ragione rifiutiamo la dipendenza. In questo caso c’è una profonda lamentela, un “attacco invidioso” spesso nei confronti di una madre vissuta come un’artefice onnipotente ma indisponibile sul piano emotivo, una donna che probabilmente non ha saputo o potuto trasmettere – con lo sguardo e il contatto – il dono dell’amore».
“Non possiamo far nascere noi stessi”, scrive lei, per restituire il senso di queste fantasie inconsce… Ma perché è così difficile accettare un fatto così basilare della vita?
«Perché il corpo testimonia la nostra relazionalità , lo spazio fisico condiviso della madre e del bambino non è che il prototipo della nostra dipendenza psichica dagli altri. Se ci sono state difficoltà  nella relazione con il primo oggetto del desiderio, può essere impossibile sentirsi a casa nel proprio corpo che potrà  quindi essere “raffigurato” come “sfigurato”, diventare strumento paradossale di autoaffermazione o di autodistruzione. È sottile il crinale tra la normalità  e la patologia nella ricerca delle modificazioni corporee, ma quando si vuole “trionfare” sul corpo è comunque un dolore psichico che viene disegnato sulla pelle».

 


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