Il ritorno del ‘made in Usa’

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Meno merci cinesi, più made in Usa. Secondo uno studio di Boston Consulting Group è questa la tendenza che va affermandosi oltreoceano: sempre più produttori stanno ripercorrendo a ritroso la strada che li ha portati a delocalizzare oltre Muraglia fino a ieri, costruiscono nuovi stabilimenti in patria e – questo lo zuccherino per il ceto medio impoverito – creano posti di lavoro.

Un trend che, sempre secondo la ricerca, è destinato ad accelerare nei prossimi anni.

Alcuni marchi storici hanno già  rilocalizzato: Caterpillar ha annunciato il grande ritorno sul suolo patrio degli escavatori che attualmente sono importati; Ncr Corporation, che fabbrica almeno un terzo dei bancomat del mondo, ha creato uno stabilimento in Georgia che darà  lavoro a 870 dipendenti; Il produttore di giocattoli Wham-O, famoso per l’hula-hoop e il frisbee, ha già  abbandonato le proprie manifatture in Cina per tornarsene a casa.
All’origine del fenomeno c’è uno spettro di valutazioni, sintetizzabili in una formula: in prospettiva, la Cina sarà  meno conveniente e gli Stati Uniti di più. È una previsione che si basa su tendenze in atto: lo yuan si rivaluta e i salari medi dei cinesi stanno crescendo, rendendo il Dragone un’economia sempre più di consumatori e sempre meno di produttori. Più un mercato e meno una fabbrica.

Certo, oggi un operaio cinese continua a costare in media un decimo del corrispettivo Usa, 2 dollari contro 22. Ma da qui a quattro anni – continua lo studio – il gap dovrebbe restringersi. Se ci aggiungiamo la maggiore produttività  della forza lavoro statunitense, una catena di distribuzione più corta, e il risparmio sui costi dovuti alla “diversità ” politico-culturale cinese – si pensi all’incubo costituito dalla difficoltà  a far rispettare la proprietà  intellettuale – riportare le fabbriche a casa sembra un’opzione sempre più valida.

Opzione che si basa su tendenze in atto, si diceva, ma non scontate sul lungo periodo. Nulla garantisce infatti che lo yuan, che si rivaluta solo su input del potere politico cinese, continuerà  la sua marcia verso l’alto. E neppure che l’ascesa del ceto medio del Dragone determinerà  un aumento generalizzato di prezzi e salari in Cina. Ma per ora, soprattutto per i prodotti ad alto valore aggiunto – che richiedono cioè manodopera più specializzata – il made in Usa torna di moda.

Le prime ricadute occupazionali sembrano già  intravedersi: ad aprile, negli Stati Uniti sono stati creati 244mila nuovi posti di lavoro, numero che supera le aspettative. Ma, dato apparentemente contraddittorio, il tasso di disoccupazione è passato dall’8.8 al 9 per cento.
Che succede? Molto semplicemente, i nuovi posti non bastano ad assorbire la manodopera che si affaccia sul mondo del lavoro. La nuova stagione del made in Usa non è così espansiva da garantire un livello sufficiente di occupazione.

Ma c’è di peggio, almeno secondo Robert Reich, ex ministro del Lavoro di Bill Clinton: la ripresa senza lavoro sta diventando “ripresa senza salari” – scrive sul Sole 24Ore – nel senso che dati incoraggianti sull’occupazione non significano nulla se i nuovi posti di lavoro si creano proprio perché “milioni di americani accettano una decurtazione in busta paga“.
Una condizione difficile, su cui grava anche l’impennata – questa volta globale – dei prezzi dei prodotti alimentari e dell’energia. Le famiglie di conseguenza non possono spendere e la crescita dell’economia resta asfittica, solo più 1,8 per cento da gennaio a marzo
Se i cittadini Usa non possono spendere, c’è una sola soluzione: vendere a qualcun altro, magari proprio a quei cinesi che pian piano stanno diventando consumatori; o ai soliti europei, con il loro euro forte (almeno finché dura).

Eccolo qui, il nuovo modello americano: produzione export-oriented mentre la middle-class tira la cinghia. Ricorda molto il modello cinese, con una differenza: i sudditi del Celeste Impero hanno sempre risparmiato, i nipoti dello zio Sam no.


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