La Nato stringe il cerchio sul Colonnello assediato. Pronto il mandato di cattura

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Forse è ferito, forse è solo ben nascosto. Potrebbe essere via dalla capitale, in fuga, oppure soltanto al riparo in un posto sicuro. Magari è nella regione della Sirte, come dicono i ribelli. Ma quel che è certo è che il tempo di Muhammar Gheddafi è finito. Lunedì il procuratore della Corte penale internazionale, Luis Moreno Ocampo, chiederà  ai giudici di spiccare mandati di arresto per crimini contro l’umanità  contro «tre persone che sembrano avere la responsabilità  maggiore» per le violenze commesse contro il popolo libico. Uno dei tre è senza dubbio il raìs, un altro dovrebbe essere suo figlio Saif al Islam. Ma la decisione del tribunale dell’Aja è solo la sanzione definitiva: non c’è futuro per il colonnello.

La Nato lo ha deciso da un pezzo: ignora le insistenze degli ingenui e poco “politici” ribelli di Bengasi e va avanti a proclamare che «lui personalmente» non è obiettivo diretto degli attacchi. Anders Fogh Rasmussen, segretario dell’Alleanza, continua a ripetere che «il tempo di Gheddafi volge al termine» e la guida della rivoluzione libica «farebbe meglio a capire che non c’è futuro né per il regime né per lui». Nel frattempo i bombardamenti sulla caserma corazzata di Bab el Aziziya continuano.
Non c’è bisogno di dichiarare lo scopo degli attacchi: la risoluzione numero 1973 del Consiglio di Sicurezza dell’Onu autorizza «tutte le misure necessarie» per difendere i civili, dunque anche attacchi mirati ai centri di controllo delle operazioni militari della Jamahiriya. E se al raìs capita di trovarsi proprio lì, sul percorso più o meno intelligente di una bomba a guida laser Paveway, nel momento in cui i caccia la sganciano, pazienza. Gli attacchi sul compound tripolino, sugli altri possibili rifugi o sull’intera città  sono giustificati formalmente dall’esigenza di colpire il quartier generale del colonnello. Lo dice pure Ignazio La Russa: peggio per Gheddafi, se si trova al posto sbagliato nel momento sbagliato.
Secondo il ministro della Difesa italiano l’Alleanza non bombarderebbe una casa del raìs, se servisse solo per la sua famiglia e non per scopi militari. In realtà  questo è già  successo, quando l’aviazione Nato ha colpito il quartiere di Gharghour, radendo al suolo una residenza della famiglia Gheddafi e uccidendo il figlio Saif al-Arab, nella speranza nemmeno toppo nascosta di far fuori il leader. La tecnologia rende ancora più ipocrite le formulazioni diplomatiche, visto che nei fatti “centro di comando e controllo” potrebbe essere qualsiasi luogo dove sia disponibile un computer interconnesso o persino un telefono. Lo dimostra anche la scelta statunitense, ben al di là  della copertura di facciata, di mettere in campo i droni armati Reaper. Sono le macchine da omicidi mirati che già  hanno spazzato via a forza di missili gran parte della struttura di comando di Al Qaeda nelle zone tribali fra Pakistan e Afghanistan.
Insomma, basta guardare: gli alleati discutono sugli interlocutori possibili oggi ancora legati al regime, litigano sulla destinazione dei beni della famiglia Gheddafi, già  congelati. Mosca mette le mani avanti, non vuole che siano distribuiti ai ribelli di Bengasi, senz’altro troppo frettolosi a dichiararsi filofrancesi e filoamericani: che vadano piuttosto in aiuti umanitari. Insomma, il dopo raìs è già  cominciato.

 


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