L’Italia perde i suoi magazzini-simbolo I thailandesi conquistano Rinascente

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MILANO – Ormai è “Attrazione fatale” tra i simboli del made in Italy e l’Estremo Oriente. Se Prada va ad Hong Kong a quotarsi, sicura che le sue borsette e il suo marchio siano un atout infallibile presso gli investitori, da ieri la Rinascente, simbolo dello shopping di tendenza, dei magazzini patinati e del lusso democratico in versione tricolore, è passata sotto il controllo della thailandese Central retail corporation. Un vero e proprio colosso – 37 grandi magazzini, 15 centri commerciali, 413 negozi monomarca, 113 ipermercati, 155 supermercati, 32 hotel, 120 brand in esclusiva e 518 ristoranti quick service sparsi per tutto il mondo – che ha subito chiarito qual è il suo obiettivo: esportare il modello Rinascente, aprire nuovi negozi in Europa, usare il marchio come grimaldello per espandere il made in Italy nel Far East.

Una dichiarazione programmatica, accompagnata da un assegno da 205 milioni, che tra debiti e cash valorizza dunque il gruppo circa 260 milioni, undici volte l’Ebitda 2010; una mossa che ha convinto a passare la mano i proprietari della holding di controllo di Rinascente (Investitori Associati con il 46%, Rreef-Deutsche Bank con il 30% e Prelios con il 20%) ma non l’erede del fondatore degli storici magazzini di Piazza Duomo, Maurizio Borletti, che con il 4% ha lottato fino all’ultimo per bloccare la vendita e ora confida nell’arbitrato per far valere le sue ragioni.
In realtà , la versione italiana delle Galeries Lafayette a Parigi o di Harrods a Londra, ha un nome se possibile ancora più radicato nella storia meneghina: la famiglia Bocconi, quelli dell’università . Furono infatti i due fratelli Ferdinando ed Ettore a fondare, in via Radegonda, nel 1865 il primo negozio di abiti già  confezionati (una rivoluzione per quei tempi di sartine e grandi atelier). Era in nuce la moderna Rinascente, comprata nel 1917 da Senatore Borletti (prozio di Maurizio) e ribattezzata così da Gabriele D’annunzio: «Ho trovato il nome: è semplice, chiaro e opportuno», spiega il vate. Molti anni dopo, alla fine degli anni Cinquanta, un giovane creativo non ancora famoso, Giorgio Armani, faceva il vetrinista del negozio di moda, all’ombra della Madonnina.
Famoso, ma non mito recente: il 13 dicembre del 1918, all’inaugurazione, furono oltre centomila i visitatori della Rinascente. Un nome che accompagnò i grandi magazzini come un destino, dall’incendio nella notte di Natale, poco dopo l’inaugurazione, ai bombardamenti del ’43; alle altrettanto ricche e movimentate cronache finanziarie – alla vendita negli anni Novanta agli Agnelli, all’addio a Piazza Affari, con l’offerta pubblica di acquisto, nel 2003 – fino alla cordata di investitori che ha passato la mano ieri, in cui era rientrata con una quota del 4%, di nuovo la famiglia Borletti.
Adesso l’ennesimo passaggio di mano. Osteggiato a colpi di carte bollate da Maurizio – l’ultima battaglia è stata persa due giorni fa, quando il giudice ha rigettato la richiesta di sequestro del 96% della holding di controllo della Rinascente – e invece salutato con piacere dai manager, che infatti reinvestiranno con una piccola quota nel veicolo societario che perfezionerà  l’operazione (attesa per luglio). L’unico che non ha applaudito è stato lui, Maurizio Borletti; che non si è presentato all’assemblea che ieri ha detto sì alla vendita e che ora attende l’esito dell’arbitrato, già  promosso, sperando che gli dia ragione.

 


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