L’eredità  di Bhopal

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È già  passato alla storia come il peggior disastro nella storia dell’industria chimica mondiale: 3.500 persone morirono la notte stessa dell’incidente, quando l’esplosione di una cisterna lasciò fuoriuscire 40 tonnellate di isocianato di metile e altre sostanze in forma gassosa, che investirono in pieno la borgata operaia che stava proprio di fronte alla fabbrica; altre 15 o ventimila morirono nei giorni e mesi seguenti, e a distanza di 26 anni gli effetti della contaminazione chimica continuano a perseguitare i sopravvissuti e i loro figli: chi è sopravvissuto al gas convive con tumori, malattie respiratorie, nervose. Molti hanno perso i parenti, molti sono rimasti inabili e senza mezzi.
L’appello alla Corte suprema riguardava le condanne comminate ai dirigenti dell’azienda riconosciuti responsabili di negligenze. Dopo il disastro i dirigenti della Union Carbide furono imputati di omicidio colposo. Nel 1989 la multinazionale americana patteggiò un accordo extragiudiziario con il governo indiano (che si era costituito come unico rappresentante delle vittime in un processo legale), che gli permise di chiudere la sua responsabilità  legale versando 470 milioni di dollari come risarcimento. Quanto alla responsabilità  penale dei dirigenti aziendali, quelli americani si guardarono bene dal mettere piede in India, dove in teoria potrebbero ancora essere processati (nei loro confronti una causa legale è stata depositata a New York). Restavano i 7 dirigenti e manager della filiale indiana: tra cui Keshub Mahindra, attuale presidente del gruppo Mahindra & Mahindra (fabbrica veicoli pesanti e trattori), allora presidente di Union Carbide India. Per loro nel 1996 il tribunale ridusse l’imputazione a semplice negligenza. Infine nel giugno del 2010 un tribunale ha emesso la prima condanna in assoluto per quel disastro: il minimo della pena, due anni. 
Un’ondata di commenti indignati ha spinto la pubblica accusa a fare ricorso: chiedeva di ripristinare la prima imputazione (omicidio colposo). È quel ricorso che ieri la Corte suprema ha respinto, argomentando che non sono stati dati argomenti validi per fare appello tanti anni dopo che l’imputazione era stata derubricata.
Resta la questione dei risarcimenti. In una seconda petizione presentata nel dicembre scorso alla Corte suprema, il procuratore generale dello stato chiede che il governo reclami risarcimenti per 50 miliardi di rupie, pari a 1,1 miliardi di dollari: un sostanziale aumento rispetto ai 470 milioni che il governo accettò nel 1989 – e che erano insufficienti, addirittura derisori, dicono da anni le organizzazioni dei sopravvissuti della gas tragedy: perché era calcolata su 3.000 defunti e centomila sopravvissuti – ma i tribunali hanno poi riconosciuto oltre 574mila persone «gas affected», cinque volte di più – e si era risolta in una miseria: tra il ’95 e il ’96 le vittime riconosciute hanno ricevuto una tantum 15mila rupie ciascuno, circa 400 dollari di allora per persone che nel frattempo avevano dovuto sopravvivere in qualche modo, bambini cresciuti senza genitori, vedove senza risorse, invalidi senza nessuna pensione. Dow Chemical, la multinazionale che nel 2001 ha acquistato Union Carbide (escluso lo stabilimento di Bhopal, che ora appartiene al governo indiano e resta ad arrugginire, in attesa di bonifica), rifiuta di assumere alcuna responsabilità . La battaglia dei sopravvissuti di Bhopal continua.


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