L’incontro

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ROMA – Vittorio Storaro non cede volentieri all’aneddotica, non concede facilmente scorci e risvolti biografici, episodi di vita, insomma ciò che fornisce materia per comporre il ritratto di un personaggio. E non c’è dubbio che sia un personaggio. Per essere esatti, anzi, Storaro è assolutamente una star internazionale: a parte il prestigio che sfiora l’adorazione di cui gode in giro per il mondo secondo una globalità  di fama che da un pezzo nessun nostro regista conosce, lo dicono inequivocabilmente le tre statuette dorate degli Oscar. Collocate su uno scaffale stracolmo di riconoscimenti che, senza ombra di civettuolo understatement, campeggiano al centro del salone di casa. Ricevute nell’ordine cronologico per Apocalypse Now, Reds (alla premiazione, alla chiamata di Storaro sul palco scattarono le note dell’Internazionale: incongruo e buffo effetto nel tempio dell’americanismo) e L’ultimo imperatore. 
Per raggiungerne il nucleo bisogna passare attraverso l’ascolto delle verità  che gli stanno terribilmente a cuore, raggiunte attraverso un’elaborazione teorica paziente e puntigliosa, decenni di disciplinata ricerca, approfondimento, studio e pensiero. Da quando, a vent’anni, prese il diploma al Centro sperimentale (stessi anni di corso di Marco Bellocchio) ai settant’anni di oggi. Un caso raro per la tribù del cinema, tranne forse tra gli sceneggiatori che sono (meglio: erano) gli intellettuali e gli ideologi della settima arte; caso unico nei campi tecnico-artistici, dove anche i geni conclamati specialmente se delle generazioni più anziane hanno sempre coltivato il vezzo dell’ignoranza, del tenersi un passo indietro al “dottore”, al regista, dell’insofferenza alle teorie e perfino della rozzezza. E unico in particolare tra i cineoperatori, tra i direttori o “autori” della fotografia. Infatti Storaro respinge tutte queste definizioni. «Io», dice battendosi come un tenacissimo guerriero solitario contro l’ormai inespugnabile vizio lessicale «che ha da sempre scambiato un ruolo per un luogo fisico, sono un cinematographer, come dicono a Hollywood: sono un cinematografo. Uno che scrive immagini in movimento, uno che scrive con la luce». 
L’incontro e l’ascolto hanno luogo a casa sua. Complesso residenziale nei pressi del sobborgo romano di Frattocchie, nome leggendario per chi sa che fu lungamente sede della scuola quadri del Partito comunista togliattiano. Nel corso di una visita durata diverse ore, compreso invito a pranzo da parte dell’ospitale signora Storaro, presenti due dei tre figli e due dei numerosi nipoti in un’atmosfera di via vai e di «c’è sempre un piatto caldo in tavola, per tutti». 
La lunga conversazione che precede ha luogo in una dépendance della villa, nel regno personale di Storaro, uno studio tutto in legno a forma ottagonale con al centro una tavola rotonda. Ambiente, ricercato ma non sfarzoso, che dice parecchio della sua ricerca di ordine esteriore e interiore. L’ispirazione viene dalla Biblioteca di Celso a Efeso, la concezione è di Mario Ceroli, la lavorazione a cura dei suoi artigiani. Tutto, ma proprio tutto intorno al padrone di casa trasuda un senso di conquista e di volontà , di cui fa parte anche l’idea di una famiglia che gioca compatta, stretta intorno al suo capo. Raggiungimento degli obiettivi. Soddisfazione per il lungo cammino compiuto da un ragazzo romano figlio della guerra e figlio di un proiezionista. Precocemente inappagato dall’istruzione professionale e limitata che la sua origine gli ha permesso. Immediatamente inappagato dall’impronta riduttivamente tecnica dei corsi di via Tuscolana destinati alle competenze diverse da quella di regista. Affamato di sapere e di cultura e subito convinto «che non si possa fare a meno di conoscenze pittoriche e filosofiche, letterarie e architettoniche e musicali» e tutto il resto – oltre che sapere tutto di lenti, obiettivi, esposizioni e di tecnologia specifica – per fare il suo mestiere, per esercitare la sua arte. «Non avrei potuto ideare l’illuminazione del volto di Kurtz/Marlon Brando senza conoscere e studiare la luce di Caravaggio». Ma anche capace, a costo di rimetterci e di tirare la cinghia («avevamo in tutto novantamila lire in tasca, con mia moglie»), di aspettare le occasioni giuste, di scegliere i lavori e gli interlocutori e, anche molto prima e non solo quando era già  diventato Vittorio Storaro, «di dire tanti e difficili no». 
Dopo l’occasione che intorno ai ventotto anni gli dischiude le porte del futuro come lo vuole lui – il film è Giovinezza giovinezza, il regista è Franco Rossi – gli incontri decisivi saranno tre. Il primo è con Bernardo Bertolucci, verso il quale nutre e conserva un sentimento speciale che deve avere a che fare con la sete inestinguibile di cultura del giovane Vittorio quando si lega (soprattutto a partire da Il conformista) a quel coetaneo così diverso, sofisticato e un po’ viziato, di famiglia supercolta, abituato a trovare nel salotto di casa il gotha della cultura italiana. Bertolucci, dunque, e poi Francis Coppola e Warren Beatty. Il temerario avventuriero seguito nello sprofondo della giungla filippina (da dove l’altrettanto esigente Vittorio impose che il “girato” venisse settimanalmente spedito non ai laboratori californiani ma a quelli romani, di cui si fidava di più) dopo aver capito che «non si trattava solo del Vietnam ma di Conrad e di un viaggio al termine della follia umana». E il divo che dimostrò di non essere soltanto il piacione di prima categoria che è, ma anche un coraggioso disposto a mettere la propria faccia e la propria carriera a rischio, in piena era Reagan, con un monumento alla Rivoluzione d’Ottobre e al comunismo. La triade fondamentale. 
Ma tra le svolte, tra i fatti e gli incontri fondamentali Vittorio ne mette anche un altro e ci tiene tantissimo. All’inizio degli anni Ottanta comincia a frequentare L’Aquila dove un gruppo di giovani cinefili appassionati, sotto la guida di Gabriele Lucci, hanno dato vita alla prima iniziativa seria e qualificata che del cinema sceglie di indagare non gli aspetti più indagati – regia, scrittura, recitazione – ma le altre arti e gli altri mestieri, la fotografia specialmente. Diventa un polo di attrazione per i pezzi più grossi, nazionali e internazionali. Per dirne uno: Nestor Almendros, mitico collaboratore di Truffaut. Diventa via via, da associazione culturale e piccolo festival, molte altre cose. «Diventa una vera università  del cinema, l’accademia delle arti e delle scienze dell’immagine, centro didattico di eccellenza». Presso il quale per molto tempo Storaro insegna (ma sul serio, e cioè non limitandosi a fare la guest star conferenziera che concede un’apparizione e via), e spinta propulsiva per un’attività  editoriale di grande valore alla Electa-Mondadori. Storaro, dall’alto dei traguardi raggiunti, resta fedelmente e lealmente grato per i tre imponenti volumi su di lui pubblicati a partire dal 2001 sotto il titolo Scrivere con la luce, tanto che ora nel pubblicarne un quarto riassuntivo e definitivo con la sola Electa (incluso Dvd, 100 euro, onestamente non troppi per la confezione lussureggiante) ha voluto, dopo averne maniacalmente curato ogni minimo dettaglio, dedicarlo agli amici aquilani la cui attività  è stata brutalmente interrotta dal sisma dell’aprile 2009 e, malgrado impegni di facciata e stanziamenti virtualmente disponibili, tuttora bloccata. «In barba a quello che dovrebbe essere sentito come un patrimonio che onora la città ». 
A conoscerlo appena un po’ oltre la superficie (e oltre il suo smisurato piacere di ascoltarsi parlare) si vedono i tratti della sua coerenza, onestà , diciamo dirittura e anche semplicità  di valori e sentimenti. Dice che la sua battaglia apparentemente nominalistica e apparentemente capricciosa e narcisistica – domanda: quante resistenze, quante diffidenze ha incontrato sulla sua strada; quanti colleghi hanno fatto dell’ironia sulle sue fissazioni e sui suoi proclami, quanti registi si sono sentiti un po’ minacciati e invasi dal suo protagonismo? – «è in realtà  lo specchio della mia umiltà . Direttore è soltanto il regista. Solo lui, come il direttore d’orchestra, tiene i fili di tutto e ha diritto a questa qualifica. Del resto in inglese il regista si chiama director. Quindi cinematographer non è un vezzo di presunzione ma proprio il contrario». Consapevolezza di servire, certo non da tecnico ma da artista alla pari, un disegno più grande il cui titolare è un altro.
Risulta abbastanza chiaro, seguendo il suo itinerario, che tra le tante cose che lo interessano, Storaro è molto attratto dalla spiritualità  e dalle modalità  per rappresentarla. Per illuminarla. Vedi Il piccolo Buddha. Si emoziona a rimettere insieme il filo di una concatenazione di casualità  – pronto a interpretarle come segnali di conferma «che le cose prima o poi succedono se vuoi fortemente e fermamente farle succedere» – che ora, proprio ora, lo sta facendo incontrare con un film dedicato all’infanzia di Maometto. E che, forse, prima o poi, gli permetterà  di arrivare al progetto dei progetti. Un film su Gesù. Volontà , applicazione, studio, ordine. Fermarsi, ogni tanto, quando si sente che le cose rischiano di girare tanto per girare: «È quello che ho fatto ciclicamente nel corso della mia carriera, con il gusto e il piacere di tornare ogni volta studente, prendendomi il tempo di riflessione e le pause necessarie». E tuttavia, cosciente del lavoro e dell’ambizione investiti e dei risultati raggiunti e soprattutto del proprio talento eccezionale, Storaro aggiunge un altro tassello: «Ho avuto anche molta, molta fortuna».


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