“Gettati in mare a metà  traversata rito tribale per placare la tempesta”

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È la maledizione della tempesta. Quando le onde scuotono furiosamente il barcone la colpa è sempre di qualcuno che sta lì accanto, qualcuno posseduto dagli spiriti maligni, qualcuno che porta sventura ai migranti che da giorni non vedono terra. Così si fanno «sacrifici» in alto mare. Così si può anche morire in mezzo al Mediterraneo. Non è la prima volta, è solo l’ultima. Però questa volta l’abbiamo saputo, ce l’hanno raccontata loro, i sopravvissuti. Riti propiziatori per far cessare la burrasca, donne violentate e poi scaraventate in acqua vive, uomini sgozzati.
La testimonianza di un ragazzino di sedici anni fa scoprire l’inferno nell’inferno per raggiungere l’Europa. Parla di cinque profughi assassinati e poi buttati ai pesci «per far tornare il mare calmo», tutte ghanesi le vittime, una mezza dozzina di nigeriani i carnefici. La strage è (o meglio sarebbe, in mancanza di conferme ufficiali) avvenuta il 1 maggio in acque internazionali, su un legno fradicio partito dalle coste libiche e con la prua puntata verso Lampedusa. Era il barcone carico di 461 neri, quello arrivato alle quattro del mattino nel porto dell’isola.
Il ragazzino, ghanese anche lui e fratello di uno degli uomini uccisi, appena sbarcato ha rivelato disperato ai volontari di Save the Children quanto era accaduto qualche ora prima fra Malta e la Sicilia. Ha parlato di donne abusate, di minacce e poi degli assassini: «Eravamo in viaggio da due giorni, il mare si stava ingrossando e un gruppo di nigeriani ha deciso all’improvviso che l’unico modo per far tornare il tempo buono era sacrificare qualcuno di noi». Il mare è rimasto gonfio di maestrale ancora per tre giorni, quando il barcone è finalmente approdato a Lampedusa imbarcando acqua da tutte le parti. Il racconto del ragazzo ghanese – ancora tutto da verificare nei particolari – è stato inoltrato dai volontari di Save the Children alla polizia, alcuni ispettori della squadra mobile di Agrigento hanno completato una prima informativa sui cinque omicidi – l’agenzia di stampa Adn Kronos, che ieri sera per prima ha dato notizia della vicenda, sostiene che ci sono anche le denunce circostanziate di altri profughi stipati sul barcone – che sarà  inviata nelle prossime ore ai magistrati. Alla procura della repubblica di Agrigento non è stata ancora aperta formalmente un’inchiesta sulla strage ma al momento soltanto un fascicolo per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. «Sono necessari altri approfondimenti», si limitano a rispondere i procuratori.
Il caso, al di là  della dinamica dei fatti e dei riscontri al racconto del ragazzo, presenta complicazioni e problemi di giurisdizione: è un reato compiuto da stranieri contro stranieri in territorio straniero. Molto probabilmente entro questa settimana sarà  ascoltato ancora una volta il ragazzino ghanese, che come tutti gli altri profughi sbarcati il 1 maggio a Lampedusa ha lasciato l’isola 48 ore dopo su una di quelle grandi navi che svuotano quotidianamente Lampedusa. È ricoverato in un centro di accoglienza in Italia. Anche i cinque assassini presunti li hanno portati via da Lampedusa, speriamo che non abbiano trovato riparo nello stesso centro di accoglienza del testimone.
Non è la prima volta e non sarà  l’ultima. Sono almeno dieci anni che al porto di Lampedusa si inseguono voci su omicidi in mare, esecuzioni di “indemoniati”, uomini immolati per salvare se stessi. Con i nigeriani sempre protagonisti di macabri avvenimenti, di riti sanguinari. Non è mai stata trovata una prova (molti testimoni hanno paura, non parlano, temono ritorsioni e vendette), non è mai stato scoperto nulla.
Solo in un’occasione, la strage è diventata inchiesta, è diventata processo e sono stati trovati anche gli assassini. Quasi tre anni fa, un altro grande sbarco, altri profughi provenienti dalla Libia. Quella volta sono arrivati con uno scafo a Porto Paolo di Capo Passero, la punta più a sud della Sicilia. Erano partiti in 72 e sono arrivati in 59. Gli altri sono stati tutti uccisi. C’era anche allora mare grosso e qualcuno disse di avere visto in mare «una donna vestita di nero su una barca che seguiva il loro scafo». Una donna vestita di nero come la morte. Un gruppo di nigeriani – quattro – presero ad uno ad uno tredici loro connazionali e li sacrificarono in mare. Quando sbarcarono a Capo Passero, però qualcuno raccontò tutto. I quattro furono arrestati. Il primo processo si è concluso il 30 giugno 2010 in Corte di Assise a Siracusa con quattro condanne a 30 anni di reclusione. Fra un paio di settimane, il 23 maggio, ci sarà  il processo d’appello a Catania per la prima strage in alto mare per sconfiggere la malasorte e la tempesta.


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