Al Qaeda, l’ora di Zawahiri il dottore guida la sua creatura

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Il “dottore” guida ora la sua “creatura”. La proclamazione di Ayman al Zawahiri a leader di Al Qaeda colma il vuoto creatosi dopo la morte di Bin Laden. A conferma che la partita è sempre rimasta in mano agli egiziani, talmente forti tra gli “afgani” da imporre, nell’attesa del responso della shura, un capo a interim come Saif al Adel. Una successione prevedibile. L’ideologo di Al Qaeda è l’ispiratore delle linee strategiche dell’organizzazione, a partire dalla decisione di impegnarsi nel jihad contro il “nemico lontano” occidentale piuttosto che in quello contro il “nemico vicino” che governa i paesi della Mezzaluna, ma viene clamorosamente sconfitto negli anni Novanta in Egitto e Algeria.
Leader Zawahiri lo è sempre stato. Rampollo di una importante famiglia cairota che conta nelle sue fila diplomatici, docenti universitari, imam di Al Azhar, il giovane Ayman si forma nel clima del “martirio di Qutb”, l’ideologo dell’ala radicale dei Fratelli Musulmani autore di quelli che saranno poi i testi-icona dei movimenti islamisti, fatto impiccare nel 1966 da Nasser. Il pensiero di Qutb, difeso dal prozio dell’allora quindicenne Ayman, avrà  una forte influenza sul futuro leader di Al Qaeda.
Negli anni Settanta Zawahiri manifesta una palese insofferenza per i Fratelli Musulmani, che nel 1969 hanno rinnegato Qutb esponendosi a continue scissioni delle sue fazioni radicali. Entra in contatto con la magmatica galassia che prepara gli “anni di piombo” in riva al Nilo. Si avvicina a Al Jihad, guidato allora da Abd al Salam Farag che, dopo la pace tra Egitto e Israele, mette nel mirino Sadat. Zawahiri è contrario: ritiene prematuro il momento e costoso il prezzo da pagare. Emerge nella circostanza un timore che lo caratterizzerà  costantemente: quello dell’isolamento delle avanguardie dalle masse. Nel suo “leninismo religioso” l’azione “esemplare” è strettamente legata a una spirale azione-repressione-insurrezione che deve avere possibilità  di riuscita, pena l’inutile distruzione delle avanguardie che la praticano. Ciò che puntualmente accade dell’ottobre 1981. Nella repressione che segue la morte di Sadat, Zawahiri viene arrestato. In carcere, e soprattutto nel processo nel quale funge da portavoce dei detenuti, diviene leader di quello che resta di Al Jihad. Tre anni dopo uscirà  dalla galera dove contrasta la strategia movimentista delle Jama’at al Islamyya, gruppo rivale guidato dallo sceicco cieco Omar Abd al Rahman fautore di una guerriglia che culminerà , negli anni Novanta, negli assalti di Luxor: tanto spettacolari e sanguinosi quanto politicamente improduttivi. Una strategia, quella contro il “nemico vicino” perseguita dal jihad locale, che Zawahiri ritiene destinata al fallimento. Tutte le sue energie si concentrano nella costruzione di un’avanguardia capace di produrre quella massa critica necessaria a rovesciare stabilmente i rapporti di forza con il Nemico a livello globale. Una concezione del Politico alla quale rimarrà  sempre fedele.
A metà  degli anni Ottanta Zawahiri è nell’Afghanistan del jihad antisovietico: qui entra in contatto con Bin Laden, divenendone presto il mentore ideologico a scapito di Abdullah Azzam. Dopo il 1992 è insieme allo sceicco saudita nell’esilio sudanese. Nel 1996 torna con Bin Laden in Afghanistan, dove due anni dopo un documento sancisce la nascita di Al Qaeda. L’impronta ideologica dell’egiziano è evidente: il testo apre la strada al jihad globale. Il seguito è sin troppo noto.
Da leader di Al Qaeda Zawahiri non abbandonerà  la lotta contro Israele e America, che ha subito confermato la volontà  di eliminarlo come il predecessore, ma punterà  a innestarla su un terreno capace di creare consenso e rafforzare l’organizzazione senza esporla a inutili rischi. L’ossessione dell’uomo dal volto segnato dal callo della preghiera in fronte, prodotto di un inchino rituale vissuto intensamente è l’isolamento. Da qui la contrapposizione all’allora leader di Al Qaeda in Iraq, Al Zarkawi, accusato di inutile stragismo. Da qui i dubbi del clan egiziano sull’11 settembre, ideato dal pachistano Khalid Sheikh Mohammed, al quale Saif al Adel rimprovererà  di aver fatto perdere il sicuro rifugio afgano.
A uscire sconfitta oggi è la branca saudita-yemenita di Al Qaeda, favorevole al rilancio del jihad locale come leva per definire nuovi equilibri nella regione e a un drastico ricambio generazionale nella leadership. Una discussione che, vista da Tunisi e il Cairo , sembra appartenere a un passato lontano.

 


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