Perchè la Torino-Lione non ci serve

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Il vastissimo e trasversale fronte Sì-Tav è tornato ad esporre con grande «forza» i propri argomenti: manganelli, ruspe, gipponi. Il tutto condito dalle solite litanie di slogan e luoghi comuni gridati incessantemente da mille altoparlanti.

In tutta la vicenda del Tav sulla Torino-Lione la costante più macroscopica, anno dopo anno, è sempre stata la totale assenza di argomenti di merito a favore e la più stretta censura sugli argomenti di merito a sfavore. Eppure la realtà  sta lì grande come una montagna, irriducibile e non manganellabile: la nuova linea ferroviaria Torino-Lione non è «discutibile», è platealmente insensata. Non ci sono margini di alcun genere e forse è proprio per questo che i proponenti si rifugiano nella pura ideologia che identifica progresso con grandi e tendenzialmente grandissime opere, scomodando Cavour («cosa avrebbe fatto…?»), inanellando i «l’Europa lo vuole», «è strategica», «il Piemonte è isolato», «l’opera è indiscutibile» (che splendida argomentazione!), «è fondamentale per la crescita»…. Mai un numero (certificato), mai una argomentazione di plausibilità  sugli scenari futuri. Eppure i fatti stanno lì, chiari e inattaccabili (per la verità  anche inattaccati, visto che si rivela più efficace la tecnica dell’ignorarli).
Il costo dell’opera, che oltre al tunnel di base non può non includere il collegamento con lo scalo di Orbassano, il sottoattraversamento in galleria profonda dell’area torinese e il raccordo con l’esistente linea AV Torino-Milano a Settimo, è dell’ordine dei 17 miliardi di euro. Questa cifra può fluttuare a seconda degli approcci e delle stime, ma emerge dai documenti ufficiali ed è estremamente prudenziale o meglio sottostimata se guardiamo i costi a consuntivo di altre grandi opere italiane (tutte le grandi opere italiane).
Questa somma andrebbe tutta a debito pubblico in quanto le risorse, nelle casse dello stato, non ci sono.
Per ottenere l’equilibrio economico dell’opera la nuova linea dovrebbe ospitare flussi di passeggeri e soprattutto di merci svariate decine di volte superiori a quelli attuali.
Per altro il flusso di merci in transito sulla ferrovia della valle di Susa, e anzi attraverso l’intera frontiera italo-francese, è in calo continuo dal 1997 ed è meno di un quinto della capacità  attuale della linea. Quanto ai passeggeri, il numero di treni tra Torino e Lione-Parigi è stato anch’esso progressivamente ridotto arrivando oggi a due collegamenti al giorno, spesso eserciti, tra Torino e Chambéry, mediante autobus (ne bastano due per accogliere tutti i passeggeri).
Aggiungo che peraltro in questi stessi anni il flusso di merci in ferrovia da e per l’Italia attraverso le frontiere svizzera e austriaca ha continuato a crescere a un ritmo piuttosto sostenuto.
La ragione di queste due diverse tendenze (calo tra Italia e Francia, aumento tra Italia e Svizzera o Austria) non è per nulla misteriosa e non è occasionale. Mercati di massa e aree di produzione di beni di consumo migrano entrambi verso est e in particolare verso l’estremo oriente. Di conseguenza il trasporto più conveniente viene ad essere quello via mare che si attesta nei porti. Dai porti la distribuzione ai mercati europei segue prevalentemente e logicamente direttrici Nord-Sud piuttosto che Est-Ovest: chi farebbe sbarcare a Genova merci destinate alla Francia o a Marsiglia merci destinate all’Italia?
Questi sono fatti non contestabili. Non potendosi appoggiare sul presente i proponenti della nuova linea si rifugiano allora nel futuro affermando che nei prossimi decenni ci sarà  un cambio epocale negli assetti di mercato per cui i flussi Est-Ovest attraverso le Alpi cresceranno di più di un ordine di grandezza (decine di volte). Il perché mai una simile rivoluzione dovrebbe avvenire non viene però indicato; la «previsione» è puramente ideologica e opportunistica, non si basa su nessun dato o ragionamento credibile. Non c’è bisogno di una laurea in ingegneria per capire che se un sistema estremamente complesso e pesante come una economia continentale manifesta per decenni determinate tendenze, esso poi non può bruscamente cambiare rotta a meno di qualche catastrofe puntuale, che non si capisce quale dovrebbe essere. I flussi attraverso la frontiera francese avvengono tra aree ad economia matura e tra mercati saturi. Lo scambio può essere considerevole ma non può che essere anche relativamente stabile con fluttuazioni contingenti. In Italia ci sono all’incirca sette autovetture ogni dieci abitanti e poco meno in Francia; da entrambi i lati della frontiera ci sono milioni di telefonini, milioni di televisori, milioni di frigoriferi e di lavastoviglie; i consumi alimentari (sprechi inclusi) sono simili. I mercati sono di sostituzione e mantenimento; perché dovrebbero espandersi in maniera esplosiva? Qualunque studente di economia (oltre che qualunque persona di buon senso) sa che il volume degli scambi tra due aree contigue non segue un andamento esponenziale (con incremento percentuale costante), come vogliono i proponenti del Tav, ma una logistica, cioè una curva fatta come una S stirata: i flussi sono alti fintantoché le differenze tra i due lati sono grandi; i flussi si riducono e si stabilizzano man mano che le differenze tra i due capi del collegamento si riducono.
È rilevante il fatto che i sostenitori del Tav non provano nemmeno a smontare, dati alla mano, considerazioni come quelle che ho appena schematizzato. Preferiscono usare la forza pubblica e la retorica. Non si tratta naturalmente di una specie di aberrazione mentale; c’è qualcosa di più sostanziale in gioco. Data una grande opera (qualunque essa sia): 1) il sistema finanziario (che anticipa il denaro) ha un guadagno certo e ingente in quanto garantito dallo stato; 2) chiunque controlla il sistema degli appalti ha un potere e un ritorno rilevantissimo, non foss’altro che perché attraverso il meccanismo dei subappalti e sub-subappalti, ha la possibilità  di lucrare plusvalori estremamente ingenti senza correre rischi di sorta, che semmai vengono scaricati sui più piccoli al fondo della catena.
Insomma è vero che c’è un problema di ordine pubblico: la società  italiana è occupata da una specie di fungo parassita che copre tutta la superficie succhiando la linfa vitale e impedendo al sistema di respirare. Abbiamo un gran bisogno di liberarcene.
*Docente al Politecnico di Torino


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