Un referendum sul regime televisivo

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Non è affatto un caso che questo referendum coincida con la crisi più grave nella storia della Rai, arrivata al culmine con l’epurazione di Michele Santoro e l’assalto finale del centrodestra alla terza rete. Di fronte a una consultazione popolare che – al di là  delle questioni di merito – rappresenta comunque un diritto fondamentale costituzionalmente garantito e uno strumento irrinunciabile di democrazia diretta, la maggioranza parlamentare punta dichiaratamente alla normalizzazione dell’azienda pubblica, alla sua completa sottomissione agli interessi dell’esecutivo. La ragion di governo, insomma, contro la ragion di Stato.
Fu proprio il successo nella campagna referendaria della primavera ’95, con la bocciatura dei tre referendum che prevedevano il “tetto” di una rete televisiva per ogni soggetto privato, il limite di due canali nazionali per la raccolta della pubblicità  e il divieto degli spot nei film, a dimostrare – come ricorda l’autore del libro citato all’inizio, riferendo un pregevole articolo di Norberto Bobbio (La Stampa, 13 giugno 1995) – che «il possesso quasi esclusivo delle televisioni private nelle mani di uno schieramento politico è una forza irresistibile». A tre lustri di distanza, Berlusconi ormai ha aggiunto anche il controllo pressoché totale della tv pubblica e ne pretende adesso la subordinazione definitiva.
Ma, da allora a oggi, il clima è cambiato. Si comincia a respirare nel Paese un’aria diversa, una stanchezza e un’insofferenza diffuse, una voglia di cambiamento. C’è da auspicare perciò che questi tre referendum, a due settimane dalla disfatta elettorale del centrodestra nelle ultime comunali, possano innescare un’inversione di tendenza o magari una svolta nella politica nazionale.
Era stato lo stesso Berlusconi, del resto, a trasformare il voto amministrativo in un referendum sulla sua figura o addirittura in un test sulla tenuta della maggioranza e sulla durata della legislatura. Ed è stato ancora il presidente del Consiglio a caricare questa consultazione di un valore politico, a cominciare dal pervicace tentativo di sottrarre agli elettori il diritto di manifestare la propria volontà  per abrogare o convalidare le leggi approvate dal Parlamento. La prima risposta che i cittadini possono fornire, dunque, è quella di recarsi in massa alle urne per votare Sì o No rivendicando così la sovranità  popolare.
Quanto ai quesiti referendari, i tre temi sottoposti al responso del corpo elettorale corrispondono ad altrettanti cardini della vita collettiva: l’energia, l’ambiente, la giustizia. Il governo in carica ha fatto le sue scelte in materia, rilanciando il nucleare che – tanto più dopo il disastro di Fukushima – il resto del mondo sta abbandonando; impostando obbligatoriamente la gestione privata dell’acqua pubblica; e infine imperniando la riforma della giustizia sulle esigenze personali del premier, nel tentativo di rilasciargli un salvacondotto e consentirgli così di sottrarsi alle accuse della magistratura.
Si può essere elettori di destra, di centro o di sinistra, ma in realtà  queste tre questioni – a cui si aggiunge virtualmente la “questione televisiva” – implicano un giudizio che scavalca perfino le appartenenze politiche e attiene alla salvaguardia della convivenza civile. Ognuna, da sola, giustifica già  la decisione di andare a votare. E al di là  dei singoli aspetti specifici, su cui ovviamente ciascuno è libero di difendere la propria opinione, l’intero “pacchetto” dovrebbe indurre a votare quattro volte Sì per dire no a un sistema di governo che tende a privilegiare i propri interessi rispetto a quelli dei cittadini, ripudia il confronto democratico e rinnega la sovranità  del popolo.


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