Anatomia dei ribelli della montagna

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CHIOMONTE. Quando si esce dall’autostrada ad Avigliana Est, infilando l’immancabile rotonda, la Val Susa è un camion fermo e dentro il camion c’è Domenico che dorme. Arriva da Agrigento, però è della valle anche lui. Vende meloni lungo la strada, meloni che viaggiano non su rotaia ma su gomma, a velocità  non proprio altissima. «C’è crisi, la gente non compra, il super treno lo faranno lo stesso e noi andremo a prendere la frutta ai mercati generali: i miei meloni alla fine costeranno meno». Per parlare, con l’occhio ancora mezzo chiuso, Domenico Sali solleva appena la testa dal sedile. Sbadiglia. Quattro meloni “no Tav” cinque euro, si può fare: passa un po’ ‘sta cassetta, Domenico.
Ormai la valle stretta e scura è una galassia, e c’è posto quasi per tutti: assolutamente no Tav, no Tav, forse Tav, si può fare Tav, magari Tav, sì Tav. I no erano la stragrande maggioranza, ma adesso i “forse” avanzano: scoraggiati o possibilisti, rassegnati o realisti, i confini sembrano disegnati sulla sabbia. La battaglia di Chiomonte, domenica, ha scombinato le carte. I violenti cancellano i pacifisti, si sovrappongono alle loro buone ragioni. Più che scegliere, si tratta di ascoltare, passeggiando in equilibrio sulla frontiera così difficile da decifrare.
Prima di Caprie c’è un’officina che manda scintille, e Francesco Macri dirige la fiamma ossidrica con la maestria di un cardiochirurgo. Ha 33 anni, vive a San Didero, poco sopra queste strade che sono ancora pianura, anche se tra i boschi può capitare di scorgere all’improvviso una lepre. A Francesco, il treno non mette paura. «Quest’opera servirebbe a smuovere la valle di lacrime, un posto dove la gente piange per la crisi ma anche perché abituata a lamentarsi sempre. Il primo progetto è stato cambiato, ora non è più devastante. E chi protesta usando la violenza ha comunque torto. Il risultato degli scontri, è che ora noi siamo quelli che fanno casino, l’Italia ci percepisce così. Qui, se non sei un “no Tav” ti guardano come un diverso, e non è giusto. Il treno darà  lavoro, muoverà  denaro, ci renderà  più europei». Il suo collega, Vittorio Dellorto, posa la maschera che ripara dai lapilli industriali e annuisce: «La mia mamma è francese, viviamo a Giaveno, e in Francia hanno l’alta velocità  da decenni: ne sono felicissimi. Mia mamma impiega più tempo da Giaveno a Ulzio, dove c’è la stazione ferroviaria, che da Ulzio a Grenoble. Conosco un sacco di gente che non era d’accordo con la Tav, poi ha cambiato idea».
Eppure, anche il dubbio procede ad alta velocità  e scava tunnel nella testa delle persone. Non si può giudicare da lontano. Elisa Dello, 37 anni, fa la parrucchiera a Torino, in pieno centro, ma ogni giorno parte e torna a Sant’Antonino di Susa perché questa è la sua terra. «Non rinuncerei mai alla valle, il mio è anche amore per l’ambiente e la quiete. Ero a Chiomonte, domenica, ed è chiaro che i violenti non mi rappresentano neanche un po’. Io ho paura che l’uranio e l’amianto ci facciano ammalare tutti, ho paura per come gestiremmo il problema all’italiana, con faciloneria, guardando solo all’interesse economico. I No Tav pacifici restano la maggioranza: vorremmo che i politici di Roma ci ascoltassero davvero, invece qui non si è mai visto nessuno. Alla fine, il treno lo metteranno: noi abbiamo gambe e parole, le gambe per le marce e le parole per protestare. Chiediamo garanzie e non promesse, forse siamo solo idealisti».
Salendo verso l’alta Valle, c’è un paese che a mezzogiorno è deserto sotto il sole. Si chiama Condove. Nel ristorante birreria C’era una volta, il neo-chef Antonio Brun stappa una bottiglia di grignolino. Menù fisso, otto euro e cinquanta. «Neo-chef perché mi sono inventato il mestiere a 49 anni, quando mi hanno licenziato da direttore di produzione d’azienda. Abbiamo aperto il primo giugno, nel cuore della bolgia infernale. La Tav si deve fare? E allora si faccia, con le garanzie del caso ma si faccia. Creerà  lavoro, indotto e servizi. La stiamo aspettando. L’altro lunedì, il blocco dell’autostrada dopo i primi scontri ha impedito la consegna delle merci, anche delle nostre. La Val Susa, a parte lo sci, non ha quasi niente: rischia di perdere un’occasione storica. Io ho scommesso sul futuro, su quello delle mie figlie Elisa ed Erika che vanno all’università . Il futuro è essere aperti e ottimisti, non paurosi».
Il dibattito è aperto, civile, non procede a colpi di mazza. Le idee non si fanno strada come il fumo dei lacrimogeni. Un interessante osservatorio può nascere dove non t’aspetti, ad esempio il distributore Agip di Borgone. Il titolare, Andrea Pognant, era anche lui a Chiomonte con i tranquilli. «Il treno non si può fermare, bisogna solo limitare i danni. Penso ai miei bambini di 2 e 7 anni. Abitiamo a Vaie, dove il tunnel della Tav dovrebbe sbucare proprio dietro casa nostra. Un’opera costosa e inutile, quei soldi dovrebbero darli ai terremotati d’Abruzzo. Pensate che a Borgone non sono riusciti neppure a realizzare 500 metri di pista ciclabile, perché la ditta è fallita: questa è l’Italia». Emanuele Spinelli, 27 anni, lavora qui come benzinaio: «Bastava raddoppiare la linea ferroviaria. Ormai il traffico delle merci dalla Francia sta calando, lo sanno tutti: e allora perché costruire un passaggio dove non passerà  nulla?». La signora Anna Maria Marchiando sta pagando il pieno, e vuole intervenire: «La Tav è inutile e dannosa, sabato abbiamo pregato davanti alla cattedrale di Susa chiedendo pace e giustizia, e che la speranza resti sempre in noi, come scrive San Pietro. I soldi per il super treno non ci sono, l’Unione Europea darebbe solo briciole: loro sovvenzionano i vigneti di Chiomonte, e nello stesso tempo il cantiere che li distruggerà . È tutto un paradosso».
Limitare i danni è quasi una parola d’ordine: la rassegnazione scende a valle insieme al vento della sera. «Domenica abbiamo perso tutti», ammette Antonio Ferrentino, sindaco di Sant’Antonino di Susa ed ex presidente della Comunità  montana. «Avevo invitato i cittadini a partecipare, l’avevo scritto sui manifesti: non lo rifarei, assolutamente. Bisogna fermarsi e riflettere, considerando il vecchio progetto F.a.r.e. con il nodo di Torino come priorità . E se il governo insiste con il tunnel di base, allora parliamone».
Il viaggio finisce dove la battaglia era cominciata, a Chiomonte, anzi Chaumont, come sta scritto in provenzale sui cartelli alle porte del borgo. Il paese sembra scolpito nella pietra, offre tutte le variazioni del grigio. Le fontane zampillano un’acqua che sa di ghiaccio, e scende dal monte che ora vogliono scavare: un sorso picchia nei denti come un martello.
«I ragazzi della manifestazione mi sono piaciuti, quelli tranquilli voglio dire, che poi erano la maggioranza». Lina Remolif ha la drogheria da quarant’anni, è un bazar dove trovare tutto, dal fiore alla vanga. «La sera, prima di tornare a valle hanno pulito ogni strada per bene, ho contato otto sacchi dell’immondizia e neanche un pezzo di carta in terra. I ragazzi hanno raccolto tutto con le mani. Mio suocero è morto di silicosi scavando nella roccia, aveva i polmoni pieni di quarzo, qui nessuno diventa vecchio. Come possiamo essere dalla parte del treno?».
Ora le finestre di Chiomonte sono chiuse, nei vicoli s’infila presto il buio, e alle sei del pomeriggio non si resiste senza il maglione. La piazzetta principale è intitolata a Colombano Romean, colui che nel Cinquecento scavò da solo una galleria a colpi di piccone, il lavoro di una vita, per portare l’acqua da un versante all’altro. Sempre da una galleria si parte, sempre in una galleria si torna. Non se ne vede la luce, però.


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