Le vicissitudini mentali di un eroe indefinito

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 Dopo la pubblicazione delle Benevole di Jonathan Littell nel 2006, qualcosa sembra essere cambiato nel sistema letterario francese, e un’editoria che ci aveva abituato a libri smilzi, esplorazioni stralunate di spazi quotidiani e autobiografie ascetiche, sembra avere scoperto il romanzo lungo e ambizioso. Mathias à‰nard, in coda a Zona – uscito in Francia nel 2008 ma edito in italiano solo quest’anno (traduzione di Yasmina Melaouah, Rizzoli, pp. 490, euro 22) – ringrazia Jean Rolin per avergli concesso di usare un titolo molto vicino al suo Zone (1995). Non so se l’autorizzazione fosse necessaria, dato che entrambi i titoli rimandano al celebre Zona di Apollinaire, ma il salto tra i due testi è significativo.

Se il libro di Rolin era un tipico esempio di diario-esplorazione di spazi parigini marginali, à‰nard si pone per molti versi nella scia di Littell, autore cui è vicino anche per ragioni anagrafiche (Littell è del ’67, à‰nard del ’72 ma ha esordito prima, nel 2003, col notevolissimo La perfection du tir) e di domicilio (entrambi vivono a Barcellona). Quanto ai loro libri, sono entrambi molto lunghi, contengono ampi affreschi di storia europea, si presentano come confessioni di narratori moralmente dubbi. Entrambi esibiscono la loro letterarietà  tramite il ricorso a tecniche moderniste: il metodo mitico (le Eumenidi in Littell, Omero per à‰nard) e, nel caso di Zona, l’artificio di un romanzo composto da un’unica frase (con l’eccezione di due inserti da un fittizio scrittore libanese, non compare un solo punto fermo fino all’ultima pagina).
La trama stessa di Zona sembra richiamare uno dei capolavori del Nouveau Roman. Come nella Modification di Michel Butor, il narratore di Zona sta viaggiando in treno da Parigi a Roma, dove una donna lo attende. Le analogie però finiscono qui, dato che il fulcro dei due romanzi non è il viaggio ma il flusso dei pensieri, che ha oggetti molto diversi dato che sono diversi i personaggi. Il protagonista di Zona, Francis Servain Mirkovic, non è infatti il dirigente di una ditta di macchine da scrivere. È cresciuto in una famiglia borghese apparentemente tranquilla ma in realtà  legata agli orrori del secolo: il padre, ingegnere, è stato probabilmente torturatore in Algeria; la madre, croata e fervente nazionalista, viene da una famiglia vicina a Ante Pavelic. Il giovane Francis pareva destinato a ripercorrere le orme della famiglia materna. Filofascista negli anni di liceo, nel ’92 si è unito ai croati per combattere prima i serbi e poi i bosniaci musulmani. Rientrato in Francia, ha trovato lavoro come agente segreto, sebbene il suo ruolo sia soprattutto di raccolta di informazioni. È così che ha iniziato a indagare quella che definisce la Zona, vale a dire l’area mediterranea e del Medio Oriente: da Gibilterra a Baghdad. Il suo interesse non è solo professionale: negli anni, Servain si è costruito, grazie agli archivi cui ha accesso e alle testimonianze raccolte nei suoi viaggi, un dossier in cui sono raccolti segreti di mezzo secolo di storia della Zona. Per liberarsi delle sue ossessioni e cominciare una nuova vita, ora Servain ha deciso di vendere i suoi documenti a un emissario del Vaticano. Zona racconta l’ultimo tratto di viaggio tra Milano e Roma e, soprattutto, i ricordi e le associazioni di un Servain reso febbrile dall’alcol e dalle anfetamine. Ciò che emerge sono sia brandelli della sua vita passata, sia centinaia di vite, di orrori e di guerre che si sono svolti nella Zona soprattutto nell’ultimo secolo, ma anche in quelli passati, con particolare predilezione per i grandi scontri tra Occidente e Oriente. La «Zona» del titolo è quindi sia una dimensione geopolitica sia una zona psichica (come già  la Zona di Pynchon e l’Interzona di Burroughs).
Il lato davvero ammirevole del romanzo è soprattutto il primo, quello storico: l’evocazione di una vastità  storico-geografica che risulta davvero epica; la costruzione di connessioni incessanti non solo orizzontalmente (uno scenario geopolitico globalizzato), ma anche verticalmente (un carotaggio nella storia della civiltà  occidentale che porta sempre allo stesso risultato: sangue e violenza). Zona è quindi una sorta di Breviario mediterraneo in chiave tragica, oppure, nelle sue infinite digressioni, interconnessioni, ricostruzioni di destini personali travolti dalla storia, è la risposta di à‰nard, più che a Littell, a W.G. Sebald.
Dove Zona risulta meno convincente è nell’indagine della mente di Servain. A causa dell’assenza di punteggiatura, siamo portati a leggere il romanzo come un lungo flusso di coscienza (i primi precedenti della tecnica, del resto, erano nati dalla congiunzione di un viaggio in treno con un personaggio in crisi: Anna Karenina). Eppure l’assenza di punteggiatura non è così sperimentale (la sintassi non è mai frantumata, anzi si potrebbe dire che Zona è scritto in una lingua normale in cui i punti siano stati sostituiti da virgole), e soprattutto il flusso di coscienza non è veramente tale: Servain segue la sua ossessione per la storia della Zona, ma le sue associazioni non sono mai inconsce. Talvolta pare persino emergere troppo nettamente la volontà  di tenere il tono elevato: ogni nome è accompagnato da un epiteto in modo da dare una patina epica, ogni ricordo di guerra è trasfigurato in chiave storico-culturale. Sappiamo che Servain è appassionato di storia, ma non d’arte o di letteratura («sordo all’arte e insensibile alla bellezza», si autodefinisce), eppure accumula riferimenti letterari anche in luoghi poco indicati: quando il compagno di guerra Andrija viene ucciso nell’atto di defecare, il narratore lo descrive come «caduto nella propria merda come Robert Walser nella neve».
Ma il maggior problema è un altro: tra tutte le vite sconvolgenti raccontate in Zona, proprio quella di Servain non lo è più di tanto. E non perché si tratti di un personaggio negativo, semmai perché non ne distinguiamo bene la parabola. Sappiamo che è stato un giovane di estrema destra, che si è recato in pellegrinaggio dal negazionista Maurice Bardèche, che in Bosnia ha partecipato a crimini contro l’umanità . Eppure per gran parte di Zona Servain traccia scenari storici da un punto di vista ideologico spesso in contraddizione con quello della sua giovinezza, tanto che, più che la sua voce, abbiamo l’impressione di sentire quella dell’autore. Sappiamo che, al termine della sua parabola, è un uomo sfinito, ossessionato, forse pentito. Ma quando è cambiato? Chi è in realtà  Servain? Su questo Zona non ci illumina del tutto.


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