Razzismo, le parole per dirlo

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È vero che talvolta ci si serve impropriamente dell’accusa di razzismo per imporre agli avversari politici un marchio d’infamia (il che non toglie che ai nostri giorni movimenti e partiti razzisti proliferano un po’ dovunque in Europa). Ed è altrettanto vero che spesso si fa una gran confusione equiparando il razzismo alla xenofobia, la xenofobia all’intolleranza e quest’ultima a ogni genere di violenza o di discriminazione.
Detto questo, la requisitoria di Taguieff contro l’antirazzismo comporta un inconveniente altrettanto serio: corre il rischio di rendere impraticabile la critica del razzismo e di occultare il diffondersi di sottoculture razziste, ben radicate nelle nostre società . Secondo Taguieff, il problema nasce da un’indebita estensione del termine, erroneamente riferito alla discriminazione di gruppi che, con ogni evidenza, «razze» non sono.
Nel suo intervento su atlantico.fr se la prende con chi considera razzista la discriminazione «dei giovani in quanto giovani, degli anziani in quanto anziani, degli handicappati in quanto tali ecc.» . In nessuno di questi casi si «essenzializza» un gruppo (lo si identifica, cioè, in base a presunte «propensioni naturali» ), e senza essenzialismo non può esserci razzismo. Ma Taguieff dovrebbe rimanere coerente col proprio ragionamento e riconoscere che quando, invece, un gruppo umano— qualsiasi gruppo— viene «essenzializzato» , allora si ha a che fare col razzismo: con l’invenzione di una «razza» , funzionale alla sua persecuzione. Il discorso razzista trasforma i gruppi in «razze» attribuendo loro una «natura» fittizia, il più delle volte deteriore. Non occorrono altre condizioni.
Taguieff non dovrebbe quindi pretendere che, perché possa essere definito razzista, un giudizio o un comportamento fornisca anche «un’informazione genetica» sui soggetti «razzizzati» ; né dovrebbe irritarsi (proprio lui, che in un importante libro del 1987 svelò i trucchi del razzismo «culturalista» ) se si considera razzista la rappresentazione essenzialistica della differenza culturale, immediatamente ricondotta alla «natura» dei gruppi.
Tantomeno si comprendono il rifiuto pregiudiziale di considerare razzista qualunque manifestazione di sessismo e la disinvoltura con cui Taguieff si sbarazza del nesso razza/ nazionalità , riducendolo a «vaga somiglianza» . Non è frequente, in tempo di guerra, la de-umanizzazione del nemico? Certi stereotipi anti-islamici non evocano forse la (presunta) natura dei popoli mediorientali? E quando omosessuali e transessuali sono considerati diversi «per natura» , perché mai in questo caso non avremmo a che fare col razzismo, tanto più che di norma tale rappresentazione serve a giustificare pratiche discriminatorie a loro danno? Battersi per un uso corretto delle parole è lodevole, soprattutto quando si tratta di termini ingombranti e complessi.
Trincerarsi dietro i principi del rigore per invocare l’abbandono di interi nuclei concettuali sembra tuttavia un rimedio peggiore del male. Taguieff considera ormai impossibile definire in modo soddisfacente la parola razzismo e chiede che si smetta di usarla nel dibattito pubblico. Si ha l’impressione che l’abito dello studioso gli giochi qui un brutto tiro. È meglio incorrere in qualche eccesso verbale che rischiare di non accorgersi che il razzismo resta, nonostante Auschwitz, uno dei principali dispositivi di legittimazione della violenza.
*storico


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