Un’Europa da rifondare

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 Nell’anno III d.c. (della crisi) abbiamo visto cose mirabili. Lotte e rivolte percorrono con un ritmo travolgente le due sponde del Mediterraneo. Movimenti di sciopero sociale, dalla Francia alla Grecia, prefigurano forme di lotta nuove. Una composizione di classe in formazione, precaria e con una fortissima componente cognitiva, ha invaso le strade di Londra e di Roma scontrandosi con la polizia nel tardo autunno. In Tunisia, quella stessa composizione di classe ha costretto alla fuga il tiranno di turno. Le acampadas spagnole fanno intravedere la potenzialità  costituente del movimento di indignazione che come un fiume carsico sta attraversando l’Europa. In Italia un movimento che in nessun modo può essere ridotto alla semplice dimensione elettorale ha posto fine all’era berlusconiana a Milano, ha spiazzato ogni interesse consolidato a Napoli e sancito con il referendum il carattere maggioritario delle lotte contro il saccheggio dei “beni comuni”. In Val di Susa, poco dopo, quello stesso carattere maggioritario si è espresso nell’assedio ai cantieri di inizio luglio, sostenuto dall’intero movimento No Tav.

La violenza del capitale finanziario si dispiega in Europa con devastante potenza. Grecia, Portogallo, Italia: basta evocare i nomi di questi tre Paesi, diversissimi se si guarda ai “fondamentali” dell’economia, per comprendere la dimensione generale della crisi e dell’attacco del capitale finanziario. La logica del saccheggio non caratterizza solo la “cosiddetta accumulazione originaria”: non solo percorre interamente la storia del capitalismo, ma si ripresenta con inedita intensità  nel tempo della finanziarizzazione. Ogni cosa, da un’isola dell’Egeo ai servizi sociali essenziali di interi Paesi, deve essere “recintata” per essere consegnata alla violenza dell’accumulazione del capitale. Solo così è possibile succhiare nuovo valore e immetterlo sui mercati finanziari, garantendo il comando del capitale sul lavoro e sulla vita.
Come abbiamo detto in questi anni, l’uno si è diviso in due: profitto, accumulazione e comando del capitale possono imporsi soltanto con immane violenza sulla composizione del lavoro vivo (qui sta il nostro Marx). Nei prossimi anni, nessuno potrà  sottrarsi alla scelta della parte da cui stare. E se nel crepuscolo continuiamo a intravedere le luci dell’alba, della “cosiddetta accumulazione originaria”, ripetiamo – con l’azzardo e lo sguardo lungo che devono tornare a caratterizzare il discorso politico – le parole di Winstanley, il capo dei diggers, che in quell’alba (la rivoluzione inglese degli anni ’40 del Seicento) stava dalla parte giusta: «Il vecchio mondo si sta consumando come pergamena nel fuoco».
Non v’è dubbio che le parole di Winstanley abbiano una validità  pressoché letterale laddove si traduca il riferimento al “vecchio mondo” con “l’Europa”. A noi pare davvero strabiliante la povertà  del dibattito di queste settimane sulla dimensione europea della crisi. Si continua a leggere, sui giornali non solo italiani, dei Pigs (Piigs, da quando l’Italia è rientrata nel gruppo) che rischierebbero di crollare di fronte all’attacco della “speculazione”, “trascinando” con sé “nel baratro” l’intera Ue. Come se non fosse evidente (e perfettamente documentabile) che l’attacco della finanza globale è indirizzato da mesi contro l’euro e contro l’Unione europea in quanto tale. “Persino” la Germania, si continua vaticinando, rischierebbe di essere “travolta”; da responsabilità  altrui, pare di capire, magari dall’innata attitudine dissipatrice degli europei “meridionali”: come se non fosse evidente che la “prosperità ” tedesca di questi anni si è fondata, oltre che su processi di accentuata “dualizzazione” del mercato del lavoro, proprio sulla moneta unica, che ha garantito le esportazioni tedesche in particolare verso i Paesi del Sud Europa (nei portafogli delle banche tedesche si trovano i titoli greci). Intanto, sotto la spinta delle rivolte nel Maghreb e nel Mashreq e a fronte della continuità  delle migrazioni da quell’area, anche la libera circolazione nello spazio di Schengen (simbolo, insieme all’euro, del “successo” dell’integrazione europea) è stata messa in discussione. Non bastano questi scarni cenni per certificare lo stato semi-comatoso dell’Ue? Intanto, a fronte di una crisi globale che perfino molti economisti mainstream avevano interpretato nel segno della crisi del neo-liberalismo, la Bce continua a ripetere, come un disco rotto e con devastanti conseguenze sociali, il mantra del pareggio di bilancio, che Tremonti vorrebbe scrivere in Costituzione (baluardo, si suppone, per la lotta contro il “mercatismo” che ha predicato per anni).
Nei giorni più caldi della discussione parlamentare sulle misure di “austerità ” in Grecia, un deputato del Kke (il partito comunista greco) ha tenuto un infuocato discorso, sostenendo che il suo Paese aveva ormai perso ogni “sovranità “. Nulla di strano, ma colpisce che il discorso sia stato ripreso dal Financial Times, che ne ha lodato il “coraggio” per avere – lui solo – “detto la verità “. “Verità ” sperimentata anche in Italia. Non solo, si badi, nell’entità  e nella composizione della manovra varata dal governo, ma anche (e soprattutto) nelle posizioni che in questi giorni sono state assunte dall’opposizione. Non possiamo qui scendere nel dettaglio dei singoli provvedimenti e delle critiche avanzate a quella che Bersani è giunto a definire una “manovra classista”. Quel che colpisce è la reverenza assoluta che viene ostentata dall’opposizione e dai suoi organi d’informazione nei confronti di figure come Napolitano, Draghi e Monti: si è giunti a parlare di un “triangolo” composto dal Presidente, dalla Banca d’Italia e dal governo, in cui la debolezza, la corruzione di quest’ultimo spiegherebbe l’attacco della “speculazione” all’Italia e il rischio default. Che questo rischio sia catastroficamente aperto, negli stessi giorni, negli Usa non sembra turbare la logica di queste analisi: si tratta solo di intervenire sul terzo vertice del triangolo, sostituendo Berlusconi con forze politiche “responsabili” e il gioco, pare di capire, è fatto.
E poi? Poi, ripetono un po’ tutti, sarà  il momento dei “sacrifici”, certo equamente distribuiti per il “bene del paese”. La parola – “sacrifici” – l’ha sussurrata un paio di volte perfino Vendola, a cui saranno venuti in mente i bei tempi quando quella parola piaceva a Berlinguer, segretario del suo partito. Ma anche i più giovani sanno che austerity e sacrifici non hanno portato bene allo stesso Pci. Allora erano serviti a imporre, con una certa violenza, quel po’ di “solidarietà  nazionale” di cui il capitale aveva bisogno per lanciare una devastante offensiva che avrebbe travolto di lì a poco lo stesso Pci e l’intero movimento operaio ufficiale. L’impressione è che oggi le cose non andrebbero in modo molto diverso… Ma il piano dello scontro si è interamente spostato fuori dei confini nazionali (all’interno c’è spazio soltanto per una gestione populista e razzista della crisi da parte delle destre). Hic Rhodus, hic salta, ancora una volta: o saremo in grado di conquistare un terreno europeo su cui agire la lotta e stabilire un rapporto di forza favorevole con il capitale finanziario, oppure, sotto il profilo politico, non vi sono alternative ai “sacrifici”. Questo significa prima di tutto attaccare l’ortodossia neo-monetarista della Bce e il patto di stabilità  su cui si fonda oggi l’euro. Solo la crescita, l’intensificazione e la circolazione delle lotte, nei prossimi mesi, possono rendere questo obiettivo praticabile (ponendo altresì le condizioni per una rifondazione del progetto europeo): di questo occorre cominciare a parlare, e con una certa urgenza.
* Una versione molto più articolata di questo testo può essere letta nel sito: uninomade.org


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