Falla in una piattaforma Shell marea nera al largo della Scozia

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LONDRA – Le acque costiere della Scozia ridotte a un pantano nero e maleodorante, il mare nero e untuoso: per ora è solo un incubo, alimentato dal petrolio riversato a tonnellate nel mare del Nord dalla piattaforma Gannet Alpha, operata dalla Shell a 180 chilometri dalla Gran Bretagna. Dopo la prima falla, individuata mercoledì e chiusa due giorni dopo, adesso la compagnia ha scoperto una seconda perdita, da una valvola vicino alla prima: un’emissione limitata, dicono, ma in un punto quasi inaccessibile ai tecnici: «Abbiamo un sistema sottomarino complesso, e la perdita è in una posizione difficile, con molta vegetazione marina», dice Glen Cayley, direttore tecnico delle estrazioni in Europa della multinazionale. La compagnia anglo-olandese assicura che i suoi sommozzatori stanno lavorando senza sosta per fermare l’inquinamento, ma riconoscono anche che per ora nelle acque davanti alla costa di Aberdeen sono finiti 1300 barili di greggio, cioè circa 216 tonnellate. Una perdita contenuta, secondo la compagnia, un inquinamento comunque molto grave secondo gli ambientalisti.
La macchia di petrolio ha già  raggiunto un fronte di trenta chilometri: secondo gli esperti, l’incidente è il più grave dell’ultimo decennio per il mare del Nord. La Shell è convinta che la marea nera sia già  molto ridotta e non raggiungerà  le coste della Scozia, perché si disperderà  in mare sotto l’effetto delle onde, e che non ci saranno danni agli uccelli marini. Ma nel Regno Unito il pensiero va alla catastrofe dell’anno scorso, quando i 70 mila barili al giorno versati dalla piattaforma Deep Horizon della Bp avevano causato un disastro ecologico nel Golfo del Messico.
Ma se l’incidente appare comunque circoscritto, le polemiche sono accese, soprattutto per il ritardo delle comunicazioni. La Shell dice di aver immediatamente informato le autorità , e di aver reso pubblico l’incidente il giorno dopo solo per poter meglio verificarne l’estensione. Richard Lochhead, segretario scozzese per l’Ambiente, chiede massima trasparenza, e assicura il monitoraggio continuo. Tony King, responsabile dello Scottish Wildlife Trust, chiede che la Shell comunichi immediatamente quanto petrolio è stato versato, e così la sezione scozzese di Friends of the Earth. Al di là  dell’emergenza, sul tavolo resta un interrogativo fondamentale, che le organizzazioni ambientaliste ripropongono con energia: l’opportunità  o meno di estrarre il petrolio da giacimenti in zone di equilibrio ecologico delicatissimo e dove gli interventi presentano grosse difficoltà . È il caso del mare del Nord, ma soprattutto delle zone artiche, dove la Shell conta di espandere la propria attività .
L’argomento viene affrontato dal Wwf: secondo Richard Dixon la perdita «fa pensare alla capacità  dell’industria petrolifera di rimediare ai disastri, se questo incidente fosse stato più grande o se si fosse verificato nelle acque più difficili dell’Artico». Greenpeace attacca con ancora più durezza: «Se la Shell non è capace di lavorare per bene nell’ultra-sicuro mare del Nord, non c’è ragione di credere che possa farlo nel glaciale mare di Beaufort». L’organizzazione si chiede se la Shell abbia risorse sufficienti per affrontare un’eventuale perdita paragonabile a quella della Bp che ha devastato il Golfo del Messico, vuole sapere se i “piani d’emergenza” della compagnia siano testati per superare l’inverno artico, e via di questo passo. Tanto più che le riserve dell’Artico sono limitate, in grado di accontentare la richiesta planetaria per un paio d’anni appena.


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