«Anche gli insorti dovranno essere giudicati dalla Corte dell’Aja»

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«In linea di principio, occorre fare il possibile per catturare le persone accusate di gravi crimini. Ma queste sono le fasi finali di una guerra: la giustizia non funziona, come non funzionano gli ospedali o altri servizi dello Stato».
Fausto Pocar, giurista internazionale, è stato presidente della Corte Onu per l’ex Jugoslavia, poi ancora membro della Corte d’appello per il Ruanda. Ora, di fronte alle vendette, da giudice dice: «Si può solo lavorare per garantire la giustizia quando taceranno le armi. Perciò dico che Gheddafi dev’essere processato da una Corte internazionale: perché la giustizia libica non sarà  subito nelle condizioni di funzionare. Più avanti, sì…».
I ribelli, sulla consegna di Gheddafi all’Aja, stanno cambiando idea…
«In caso di crimini contro l’umanità , la competenza può essere della Corte internazionale se le corti locali non possono esercitare un processo sereno. E con le vendette in Libia, mi sembra opportuno… Anche il peggior criminale ha diritto alle garanzie. Meglio un processo internazionale che un nuovo caso Saddam: quello sì era un processo con poche garanzie».
I ribelli su Gheddafi per ora hanno messo una taglia…
«Con la giustizia questo c’entra proprio poco. Però oggi la Libia non è il mondo ideale del diritto».
Ci sono testimonianze anche sui crimini commessi dai ribelli. Giudicare Gheddafi e non gli insorti non porterà  di nuovo a parlare di «giustizia dei vincitori»?
«Di crimini dei ribelli si parla da marzo. Se li hanno commessi, devono essere giudicati. Dov’è possibile farlo, dove c’è serenità  e i giudici non sono esposti a estorsioni».
Quindi anche nei tribunali internazionali?
«Sì».
A proposito di uso politico della giustizia. Il mandato d’arresto per Gheddafi, spiccato come per Milosevic nel pieno della guerra, è parso sospetto…
«Fin dalla prima risoluzione i tempi dati al procuratore Moreno Ocampo erano stretti, due mesi. Non so che prove avesse in mano, ma io da procuratore avrei agito con più calma. D’altra parte, se si attiva il Consiglio di Sicurezza per istituire un processo, è un controsenso poi, da parte delle stesse potenze, cercare l’esilio del dittatore: le due strade si escludono a vicenda. Quindi sì, c’è stata una certa manipolazione».
Lei che ha seguito i processi nell’ex Jugoslavia: portano riconciliazione?
«Riconciliazione non tanta. Però hanno creato una collaborazione con i giudici locali, che hanno avviato molti processi per crimini minori. I Balcani insegnano: si possono esportare nel Paese i principi di giustizia».


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