Draghi al Quirinale: non c’è un caso Italia

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ROMA — Non esiste un «caso politico Italia» dentro la Banca centrale europea. Le dimissioni di Jà¼rgen Stark non coinvolgono né la linea dell’Istituto, come ha assicurato Jean-Claude Trichet, né il governo di Berlino. Insomma: la posizione del «falco» tedesco, polemico sulla scelta di acquistare titoli dei Paesi in difficoltà  (fra i quali il nostro), era nota e la sua rinuncia a restare nel comitato esecutivo della Bce resta un episodio a parte. Che, secondo tale sdrammatizzante chiave di lettura, non dovrebbe dunque minacciare il fronte italiano dell’euro.
È questa una delle conclusioni del faccia a faccia di ieri tra Giorgio Napolitano e Mario Draghi. Incontro che i due avevano concordato al telefono sabato, nelle ore in cui una nuova tempesta si abbatteva su borse e mercati, colpendo in particolare l’Italia. Da tempo il capo dello Stato e il prossimo presidente dell’Eurotower hanno preso l’abitudine di consultarsi, in una continua vigilanza e scambio di valutazioni sulla crisi. Entrambi stanno spendendo la propria credibilità  e prestigio in un’azione per contenere gli effetti di quella che ormai è un’emergenza nazionale. Il primo con una serie di pubblici richiami. Il secondo con un continuo monitoraggio degli ambienti economici e finanziari internazionali, e con qualche riservato consiglio a chi ha responsabilità  istituzionali da noi. Divergenze tra loro non ce ne sono e lo dimostra il fatto che pure ieri si sono trovati d’accordo nell’analisi sulle cose da raccomandare ora. Draghi, dopo aver confermato a Napolitano la «buona accoglienza» della manovra-bis (per quanto ancora in progress) negli ambienti politici europei, ha tuttavia sottolineato l’urgenza di accompagnare a quei provvedimenti una serie di misure per la crescita, meglio se accompagnati da riforme strutturali.
Ed è proprio ciò che lo stesso presidente sostiene con ripetuti appelli. Sempre il bilico tra l’urgenza di parlare «il linguaggio della verità » e la necessità  di non deprimere la gente comune con pronunciamenti troppo ansiogeni.
In questa chiave va letta la sua ultima raccomandazione, consegnata ieri in un’intervista a Bruno Vespa per uno speciale sul decimo anniversario dell’11 settembre. «Ce la dobbiamo fare, ce la possiamo fare», è il messaggio. «Io non ho mai dubitato un solo momento della capacità  di un Paese come il nostro, che si è rialzato da cadute tremende, di trovare la strada di un nuovo sviluppo nel prossimo futuro. Per questo è però indispensabile più di una cosa».
La prima, spiega, «è capire quanto sia cambiato il mondo, capire che noi tutti, di ogni classe sociale e non solo di ogni parte politica, non possiamo più ragionare come se stessimo nel 1980… Siamo nel 2011 e bisogna trarne le conseguenze, anche dal punto di vista delle aspettative e dei nostri comportamenti, individuali e collettivi». La seconda cosa da capire «è che ci siamo rialzati da cadute come dopo la Seconda Guerra Mondiale perché abbiamo saputo trovare un forte cemento unitario, al di là  delle divisioni politiche che negli anni 40-50 erano molto aspre. Dobbiamo ritrovare il modo di costituire un forte cemento unitario e una forte coesione nazionale e sociale nell’interesse del Paese».


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