Intercettazioni, il Colle ferma il Cavaliere

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ROMA — Sponde contro i magistrati Silvio Berlusconi non ne ha trovate, al Quirinale. Tantomeno salvacondotti. Ha trovato attenzione e ascolto, questo sì. Come sempre. Incassando da Napolitano parole di equilibrio e l’invito a cercare qualche soluzione di buonsenso (vale a dire presentarsi ai pubblici ministeri) per superare l’impasse sull’inchiesta Tarantini. Ma quando dai soliti sfoghi sull’«uso politico della giustizia», in cui continua ad assegnarsi il ruolo di «perseguitato», è passato a ventilare — o forse addirittura minacciare? — l’idea di un decreto legge per bloccare subito le intercettazioni su di lui, beh, allora le cose sono cambiate. A quel punto, infatti, il presidente della Repubblica ha chiuso il discorso ricordandogli che cosa pensa di una simile eventualità . Impraticabile, con un secco no.
Così, l’incontro è finito dopo appena venti minuti. È stato poi necessario un pomeriggio, al Cavaliere, per ripensarci, consultare i suoi consiglieri, calcolare costi e benefici di un inevitabile nuovo scontro con il Colle, verificare che su una faccenda del genere pure la Lega si sarebbe con molte probabilità  messa di traverso. E decidere alla fine di fermarsi e cancellare quell’ipotesi dall’ordine del giorno del Consiglio dei ministri, convocato all’ora di cena.
Ecco come sarebbe andato, ieri, il faccia a faccia tra il premier e il capo dello Stato. Usare il condizionale non piace mai a un cronista, specie se le fonti (parlamentari) sono autorevoli. Ma stavolta è d’obbligo anche se, conoscendo i due interlocutori, la ricostruzione appare più che verosimile. Fatto sta che Palazzo Chigi in serata smentiva qualsiasi frizione. Mentre il Quirinale, contemporaneamente, si difendeva con un enigmatico silenzio.
Su questa versione, insomma, esprimeva soltanto l’«assoluto riserbo» dei momenti più critici. Accompagnato però da un «né si conferma né si smentisce» che suonava come un indiretto e infastidito avallo.
Infastidito perché è chiaro che a un uomo come Giorgio Napolitano non può piacere essere descritto come il bersaglio di un’ennesima, e insopportabile, prova di forza. Tanto più se la sfida ha a che fare con la materia delicata e spinosa delle intercettazioni, sulla quale s’intrecciano diverse esigenze e sensibilità : dei magistrati, dei giornalisti, delle persone sottoposte a indagine (e magari, come si è visto, persino di estranei) che vedono messa a rischio la propria privacy. Su questo problema, di cui riconosce il peso ma che vorrebbe fosse affrontato con gli ampi dibattiti di un disegno di legge e non certo con la formula del decreto — del resto, dove stanno i requisiti costituzionali di necessità  e urgenza ai quali dev’essere ispirato un decreto? —, appena un anno fa il presidente si era concesso un sarcastico requiem: «Che fine ha fatto quella legge? Dite che è finita su un binario morto? Ah, bene…». In bilico tra un’ufficialità  minimalista e una ufficiosità  ben più pepata ma che va taciuta, del faccia a faccia di ieri mattina sul Colle non resta dunque che recuperare ciò che si è voluto far sapere. Cioè la vulgata di un Berlusconi che si affannava a informare il capo dello Stato della sua missione tra Bruxelles e Strasburgo. Con un replay dell’ormai ampiamente pubblicizzato suo orgoglio per il «via libera» dell’Europa alla manovra. Napolitano tagliava corto e lo esortava ad andare oltre e a «misurarsi con i problemi della crescita», come da tempo sollecita in sinergia con Mario Draghi. Ora, se per consolidare il risanamento dei conti e riattivare l’economia servissero interventi rapidi, ad esempio su privatizzazioni e previdenza, si approfondisca l’argomento e si cerchino vie d’uscita condivise: questa è stata la raccomandazione del presidente. Prima che ogni discorso si bloccasse sul tema della giustizia, sul quale il Cavaliere sempre s’incendia, azzardando le vie d’uscita più immaginifiche.
Stamane Napolitano parte per una visita di Stato in Romania. Quando lascerà  l’Italia avrà  già  promulgato la manovra. Non poteva fare altrimenti, nonostante gli appelli rivoltigli da chi teme gli effetti dell’articolo 8, sulla licenziabilità  dei lavoratori. Non poteva non firmare per tre motivi: 1) perché non esiste la possibilità  di un rinvio alle Camere parziale di una legge; 2) perché quell’articolo non è stato considerato dai suoi giuristi «palesemente incostituzionale», senza escludere comunque che su di esso si esprima la Consulta, se chiamata in causa; 3) perché se la manovra fosse congelata ne deriverebbero drammatiche conseguenze su borse e mercati.


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