Quel lungo gelo con il ministro Tremonti

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È una corsa ad handicap per Berlusconi  ed è anche una corsa contro il tempo.
Il premier ha una sola strada per tentare di uscire dal vicolo in cui la crisi economica e le vicissitudini giudiziarie lo hanno cacciato: rilanciare sullo sviluppo.
Bocciato dalle agenzie di rating, incalzato dall’Europa, abbandonato da Confindustria, sollecitato da Napolitano, Berlusconi deve provare a invertire una pericolosa spirale che rischia di trascinare il Paese nel baratro della recessione. Sa che l’impresa è maledettamente complicata, perché è difficile reperire al momento risorse tali da porre in atto la «scossa sviluppista» che «avevo prospettato e che Tremonti a suo tempo non ha assecondato». Ma se poi il capo del governo non si parla con il ministro dell’Economia, allora la missione si fa davvero impossibile.

E non ha senso per il Cavaliere scaricare sui media italiani la responsabilità  del declassamento di Standard & Poor’s, oppure sostenere nei colloqui riservati che «gli Stati Uniti hanno perso la tripla A, eppure nessuno in America ha chiesto le dimissioni di Obama». A parte il fatto che le situazioni sono diverse, in Italia c’è un problema nel problema se per giorni il muro dell’incomunicabilità  ha tenuto distanti il premier e Tremonti, che ha interrotto i rapporti anche con Gianni Letta, adirato — a quanto pare — per l’incontro che il presidente del Consiglio e il sottosegretario hanno avuto con il direttore generale di Bankitalia Saccomanni, facendo capire quale sia la loro preferenza per la successione di Draghi a governatore.

Ancora fino ieri mattina tra i due non c’era stato alcun contatto, se è vero che Martino — a cui Berlusconi ha affidato il compito di organizzare una task force di economisti per palazzo Chigi — si è sentito dire di «pazientare». L’ex ministro degli Esteri e della Difesa aveva chiamato il Cavaliere per annunciargli la disponibilità  a far parte della «squadra» di un’autorità  in materia come Gary Becker, premio Nobel per l’economia e discepolo prediletto di Milton Friedman. «Sono contentissimo, Antonio», ha commentato il premier: «Ma ti prego di pazientare finché non risolvo la questione con Tremonti».

Pare che ieri sera la linea telefonica tra il Cavaliere e il titolare di via XX settembre si sia riattivata. D’altronde sarebbe impensabile mettere a punto il decreto per la crescita senza un dialogo tra i due, per quanto sul fronte della parti sociali nessuno si attenda granché dal pacchetto, «non certo la svolta» che la presidente di Confindustria Marcegaglia attendeva. Ma la missione va portata a compimento, nel Pdl premono perché l’azione di governo sul versante economico dia risultati.

Anche Berlusconi è determinato in tal senso: solo così potrà  dare inizio a quella che definisce la «controffensiva». Il vertice di maggioranza preannunciato per domani muoverà  infatti su tre fronti: si parlerà  certamente del decreto per lo sviluppo, che arriverà  in Consiglio dei ministri la prossima settimana, e poi si affronteranno i nodi della giustizia e della legge elettorale. Sul primo tema il Cavaliere chiede l’approvazione in Parlamento di una serie di provvedimenti per «controbattere l’azione eversiva della magistratura». È chiaro l’obiettivo: impedire che il processo Mills vada a sentenza, perché sarebbe difficilissimo politicamente reggere a palazzo Chigi con una condanna per corruzione in atti giudiziari. E per Berlusconi «la sentenza è già  scritta».

Altro che «passo indietro», Berlusconi è determinato a resistere, ne è prova il fatto che l’incontro di maggioranza seguirà  il voto alla Camera sulla richiesta di arresto per l’ex consigliere politico di Tremonti, Milanese. Come dire che l’esito di quello scrutinio non cambierà  la linea del premier, pronto ad adottare una strategia combinata, con cui mira ad arroccarsi per il presente e ad aprirsi per il futuro. Se per un verso, infatti, va alla guerra sulla giustizia in modo da tutelarsi, per l’altro — sulla legge elettorale — lancia un segnale di disponibilità  al dialogo con l’Udc.

La riforma del sistema di voto, come ha spiegato Alfano nel vertice del Pdl della scorsa settima, «è una questione ormai ineludibile», nel senso che il partito non può farsi trovare impreparato se la Consulta dovesse dare il via libera al referendum elettorale. In quel caso, senza un’intesa già  precostituita nella maggioranza, come sostiene Maroni «si finirebbe per votare l’anno prossimo».

Ma il Cavaliere non ne ha interesse, sebbene inizi a scorgere nel suo partito dubbi che alimentano i suoi sospetti. Ecco perché Gianni Letta, a quanti si proponevano di spiegare a Berlusconi la necessità  di preparare una sorta di «exit strategy», ha consigliato di soprassedere: «State fermi, sennò pensa che sia in atto un complotto». Tirerà  aria da rompete le righe, ma nessuno ha la forza di ordire una congiura.


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