Una «lista delle vittime» nella trattativa boss-Stato

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Totò Riina era stato arrestato da poche settimane. Molti capi di Cosa nostra restavano latitanti, ma quelli rinchiusi nei penitenziari dovevano fare i conti con l’inasprimento delle regole. Alcuni lamentavano maltrattamenti, e un gruppo di parenti dei detenuti sull’isola di Pianosa si rivolse al Quirinale, per segnalare violenze e disagi subiti dai reclusi e dai loro familiari.
Ma Scalfaro non era l’unico destinatario dell’inusuale lettera di protesta, dai toni piuttosto minacciosi. Altri ne erano stati aggiunti «per conoscenza», tutti di alto livello: il Papa, l’arcivescovo di Firenze, il giornalista Maurizio Costanzo. E poco dopo cominciò la nuova stagione delle bombe, contro obiettivi che — letti alla luce di quella denuncia — sembrano strettamente correlati: il 14 maggio 1993 l’attentato contro Costanzo; il 27 maggio un ordigno squarciò il centro di Firenze, 5 morti e 48 feriti. Due mesi più tardi l’esplosione davanti al palazzo del Vicariato, a San Giovanni in Laterano.
«Insomma, quell’indirizzario, ben guardato, aveva tutto l’aspetto di una victim list, se non proprio di persone, almeno di luoghi a essa collegati», scrive Sebastiano Ardita nel suo libro Ricatto allo Stato (Sperling & Kupfer, pagg. 177) in uscita il 20 settembre. Ardita è un magistrato siciliano che da dieci anni lavora al Dap, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, e ha passato gli ultimi mesi a raccogliere e rileggere le carte sulla cosiddetta, «trattativa» tra Cosa nostra e le istituzioni nel periodo delle stragi. A lui si deve la segnalazione di questo inquietante documento che, valutandone seguiti e conseguenze, potrebbe rivelare risvolti clamorosi.
Dopo le bombe di luglio ’93, seguite a una massiccia proroga dei «41 bis», nell’autunno ci fu la scelta ancora non del tutto chiara del ministro della Giustizia di non prorogare i provvedimenti di «carcere duro» in scadenza tra ottobre e novembre 1993. «Se quell’esposto-minaccia venne preso in considerazione e quanto peso vi venne attribuito — scrive Ardita — non è facile dirlo, anche perché non se ne fa cenno in nessun atto ufficiale. Certo è che, anche alla luce degli attentati che ne seguirono, avrebbe dovuto essere oggetto della massima attenzione». Forse invece fu sottovalutato, almeno prima delle nuove stragi. E dopo non si sa. L’allora Guardasigilli Giovanni Conso s’è preso la totale responsabilità  delle mancate proroghe dei «41 bis», negando ogni ipotesi di trattativa con la mafia e spiegando di aver deciso «in solitudine», ma Ardita commenta: «La coraggiosa dichiarazione di Conso, più che una spiegazione convincente rappresenta una forte espressione di senso istituzionale». Tuttavia «il modo di procedere pragmatico e spedito della nuova gestione del Dap lasciava intendere che dietro quella scelta vi fosse una copertura istituzionale forte, non solo e non tanto riconducibile alla sola volontà  del ministro della Giustizia, ma probabilmente ispirata da un suggeritore tecnico per una scelta pragmatica di gestione della crisi».
Nella sua ricostruzione il giudice Ardita dissemina diversi indizi ed episodi che fanno intuire come può essere avvenuto il ricatto allo Stato da parte di Cosa nostra, avviato nel 1992 con le stragi e proseguito, forse, fino ai giorni nostri. Perché c’è qualcosa di misterioso, ad esempio, nelle manovre messe in atto per far spostare Bernardo Provenzano — subito dopo il suo arresto — dal carcere di Terni dove era stato destinato. Sulla prima pagina di un importante quotidiano uscì la falsa notizia che il figlio di Riina, detenuto nello stesso penitenziario, si lamentò dell’arrivo dello «sbirro»; qualche anno dopo Massimo Ciancimino, l’indagato-imputato-testimone oggi agli arresti per calunnia, ha confessato di essere stato la fonte di quella falsa informazione, riferitagli dal fantomatico e mai individuato «signor Franco». Quale fosse il movente del depistaggio, così come di altri, resta un enigma insoluto, e Ardita si chiede quale ruolo abbia avuto Cosa nostra in simili operazioni. Così come si pone un inquietante interrogativo sulla morte violenta dell’avvocato ex deputato del Pdl Enzo Fragalà , ucciso a bastonate il 23 febbraio 2010, nel buio di una sera palermitana. Un omicidio apparentemente «comune», ancora irrisolto: «Fino a quando non si sarà  trovato un esecutore e un movente che ci facciano escludere la responsabilità  della mafia — scrive Ardita —, non sapremo mai se anche questo possa essere stato un segnale contro il “41 bis”. E sarebbe il più terribile dei segnali, proprio perché non riconoscibile agli occhi dei più. Ma tutto lascia supporre che possa essere stato un omicidio di mafia mascherato».


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