Colpo di «cena», c’è la crisi

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 Il governo è a un passo dalla crisi. Va avanti come un funambolo su un filo sempre più lungo ed esile. Nell’entourage del Cavaliere già  da ieri mattina era chiaro che la data cerchiata in rosso sul calendario sarebbe stata quella di oggi. Per la prima volta dal ’94 si è incrinato l’asse tra Berlusconi e Bossi. E come allora, anche stavolta sulla riforma delle pensioni (da 65 a 67 anni). Novanta minuti di consiglio dei ministri (iniziato con un’ora di ritardo per un faccia a faccia tra Berlusconi e i tre ministri leghisti) non sono bastati a sciogliere la matassa. Anzi, la discussione ufficiale e ufficiosa non ha risparmiato toni drammatici.

Tutto il Carroccio, dal «cerchio magico» a Maroni, si dice contrario a tagliare le pensioni. «Scontro finale, la Lega non arretra», titola bellicosa la Padania di oggi. Reguzzoni, Rosi Mauro e il ministro dell’Interno si muovono all’unisono. «Noi abbiamo una posizione molto chiara – avverte Maroni – i pensionati hanno già  dato». Di parere opposto quasi tutto il Pdl e soprattutto Bce, Ue e Commissione europea.
Il premier si muove in un campo minato. Lo dimostra la ridda di incontri in cui ha provato a preparare il terreno con l’alleato leghista. In mattinata si chiude con Tremonti e Alfano a palazzo Grazioli. Poi sale al Quirinale insieme a Gianni Letta per discutere la bozza di decreto. Poi torna a casa sua per un nuovo incontro con i fedelissimi e convoca il consiglio dei ministri alle 18, dissodato dal pre-vertice coi leghisti. Tutto inutile. Ma un accordo va trovato per forza e entro domattina un nuovo consiglio dei ministri dovrà  approvare un testo da portare a Bruxelles.
Su una sola cosa nella maggioranza concordano tutti: se il decreto dovesse passare senza i voti della Lega si aprirebbe la crisi di governo. Lo dichiarano – dalle sponde opposte della maggioranza – sia il ministro Rotondi che Maroni. E Matteo Salvini lo dice chiaro: «Se il Pdl farà  passare il decreto sull’innalzamento dell’età  pensionabile con i voti del Terzo Polo vorrà  dire che non c’è più la maggioranza e quindi il governo». Ma se passa il decreto, voi mollate?, gli chiedono su Radio2. «Ovvio – risponde l’europarlamentare – sì, yes, oui. Noi usciremo da un governo che per una decisione come questa esclude la Lega e vota coi democristiani».
Il Carroccio sembra avere nostalgia dei tempi della secessione e del populismo più sfrenato. Non ha torto, infatti, il capogruppo Pdl in senato Maurizio Gasparri quando ricorda che nel 2004 fu proprio l’allora ministro del welfare Maroni ad approvare lo «scalone» previdenziale poi leggermente ammorbidito dal governo Prodi.
Lo scontro, dunque, è tutto politico.In caso di elezioni la Lega non ha nulla da potersi «rivendere» in campagna elettorale: il federalismo è evaporato sotto montagne di carta bollata e bollette da pagare, le ronde non sono mai esistite, le famose «riforme» l’ha portate via il vento e le tasse stanno al massimo storico. Il tutto mentre migliaia di capannoni del Nord giacciono abbandonati e vuoti. Fare muro sulle pensioni contro l’«Europa delle banche» è l’unica carta mediatica in mano ai leghisti. Che però, a differenza del ’94, devono stare accorti. Perché stavolta se si formasse un governo di «responsabilità  nazionale» (come invocano Pd e Udc) i padani potrebbero essere messi in difficoltà  nell’inevitabile discussione sulla riforma elettorale.
Infatti mentre la maggioranza si dilania sulle pensioni di anzianità , un’Europa mai così ostile chiede all’Italia «agenda e calendario» delle riforme «necessarie» (non solo pensioni ma anche privatizzazioni, liberalizzazioni, welfare e giustizia civile). Impegni scritti accompagnati dalle scadenze con cui si intende approvarli.
Per Berlusconi è l’ora più difficile. Già  domani sera dovrà  dimostrare agli altri capi di stato e di governo di aver fatto i «compiti». «Dobbiamo mettere le misure nero su bianco, altrimenti si rischia di andare a Bruxelles allo sbaraglio. Non possiamo mettere a rischio la tenuta del paese», avverte quasi disperato un uomo solitamente prudente come Gianni Letta in consiglio dei ministri. Un ragionamento di fronte al quale Bossi non ha fatto una piega: «Bisogna trovare soluzioni che vadano bene a tutti».
E’ surreale che in questo clima il “superministro” dell’Economia Giulio Tremonti non si esprima pubblicamente. Chi ha potuto parlargli, però, riferisce di un Tremonti asserragliato sulle posizioni leghiste. Sicuro che tra finestre già  chiuse o «mobili» (12 mesi per i dipendenti, 18 per gli autonomi) e l’adeguamento della soglia all’aspettativa di vita, il sistema pensionistico italiano è sostanzialmente al sicuro. E anche tagliando come vuole Bruxelles non darà  risparmi sensibili prima del 2014. Argomenti solidi ma che non convincono l’Europa.
La cena di Palazzo Grazioli tra Berlusconi, Bossi, Maroni, Calderoli, Tremonti e Letta – iniziata mentre chiudiamo il giornale – potrebbe aver appianato alcuni nodi. Difficile però che stavolta se ne esca senza vincitori né vinti con il classico compromesso all’italiana.
In questo clima che secondo Ferrero (Prc) annuncia un «inferno greco», è tragicomico scorrere nella bozza del cosiddetto decreto sviluppo un lungo articolato riguardante addirittura il diritto di famigli (vedi sotto). Una norma che consentirebbe a Berlusconi di poter dividere Mediaset a suo piacimento tra i figli di primo e di secondo letto.
Come commentava Franco Bechis (di Libero) ieri su twitter: «E’ geniale, una norma ad personam post mortem». Nulla ci viene risparmiato.


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