Finanza e lavoro, le politiche possibili

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La crisi ha messo in dubbio i punti di forza e di debolezza dei vari modelli, e i criteri con i quali valutiamo i quadri alternativi di policy. Alcuni paesi hanno resistito meglio di altri alla tempesta, altri hanno avuto gravi responsabilità  nel crearla. Alcune politiche, a lungo difese dai mercati finanziari e dalle istituzioni finanziarie internazionali, hanno contribuito alla diffusione della crisi in tutto il mondo.

C’è stato un momento in cui ogni economista era diventato keynesiano e un altro in cui Alan Greenspan ha messo in dubbio la capacità  dei mercati di autoregolarsi. Ora tutto questo è passato. I mercati finanziari stanno spingendo per un ritorno alle vecchie maniere e, visto l’elevato debito pubblico, per il consolidamento dei bilanci degli stati – il che quasi sempre significa tagliare i servizi essenziali per i lavoratori e le lavoratrici. In un mondo già  segnato da alti livelli di disoccupazione, le politiche di austerità  pretese dai mercati porteranno a livelli di disoccupazione anche maggiori; e questo, a sua volta, provocherà  una pressione verso il basso sui salari. Ma i conservatori negli Usa hanno continuato con il loro ritornello: la colpa della crisi sarebbe del governo che ha facilitato l’acquisto della casa e che ha creato rigidità  nei salari: se solo i lavoratori fossero «flessibili» nelle loro richieste salariali, potremmo rimettere il mondo al lavoro. (…)
La crescente disuguaglianza negli Usa e in molti altri paesi è legata – secondo una Commissione di esperti dell’Onu – all’insufficienza della domanda aggregata globale, che a sua volta è al centro della crisi attuale. In un certo senso, alle classi più povere degli Usa è stato detto di non preoccuparsi della diminuzione dei loro redditi, ma di mantenere i loro standard di vita prendendo a prestito del denaro. Questa politica ha funzionato nel breve periodo, ma era chiaramente insostenibile nel lungo. E sarà  difficile ripristinare un robusto e sostenibile livello di consumi senza ridurre le disuguaglianze. Sfortunatamente, le pressioni verso il basso sui salari causate dalla disoccupazione ci portano su una strada opposta, uno degli aspetti che dimostrano che i mercati di per sè non sono stabili. Per la stessa ragione, gli appelli a una maggiore flessibilità  dei salari – che nascondono una riduzione dei salari per i più vulnerabili – finiranno per indebolire la domanda aggregata ed essere controproducenti. (…)
È singolare come economisti ragionevoli, quando viene assegnato loro il compito di ragionare sulle scelte politiche, perdano rapidamente i loro punti di riferimento. Quando guardano alla salute di un’impresa, considerano cash flow e bilancio, attività  e passività . Ma quando passano ad analizzare i bilanci pubblici, si concentrano esclusivamente sulle passività . Non si può fare a meno di pensare che questa cecità  sia di natura politica: riducendo il debito sperano di forzare (in tempi come questi) i tagli alla spesa sociale. C’è però una risposta economica più razionale: aumentare gli investimenti, anche se finanziati col debito, può migliorare la solidità  complessiva di una nazione e anche ridurre il rapporto deficit/Pil nel medio termine. Per paesi come gli Stati Uniti, con investimenti che non vengono più realizzati da anni e con la possibilità  di contrarre prestiti a tassi vicini allo zero, una politica di questo tipo avrebbe risultati positivi: le entrate fiscali aumenterebbero molto più degli interessi da pagare, portando a una riduzione del debito e un aumento del Pil. (…)
Queste sono politiche «a somma positiva». Ci sono altre politiche che possono migliorare l’efficienza dell’economia e promuovere una crescita di lungo periodo. Costringere le imprese a pagare i costi che impongono all’ambiente significa eliminare un sussidio distorto, aumentando l’efficienza. Il benessere sociale è stato migliorato dall’introduzione della regolamentazione ambientale, che ha portato a un’aria più respirabile e un’acqua più sicura. Utilizzando incentivi di mercato – tassando le attività  «cattive» invece delle «buone», come il lavoro o i risparmi – è possibile generare reddito e allo stesso tempo aumentare l’efficienza. I titoli finanziari tossici americani hanno inquinato l’economia globale e imposto costi enormi sulle spalle di altri. Esiste un’ampia gamma di imposte sul settore finanziario – compresa la tassa sulle transazioni finanziarie – che potrebbero generare un ammontare considerevole di entrate fiscali e magari portare anche a un’economia più stabile. Allo stesso modo, tasse sui derivati del petrolio e sulle attività  che provocano emissioni di carbonio potrebbero incrementare l’efficienza energetica dell’economia, fornendo al tempo stesso le risorse necessarie per ridurre il deficit pubblico.
Infine, ci sono politiche che comportano pesanti trade-off , in cui non tutti hanno benefici nel breve periodo. Se il consolidamento fiscale ci dev’essere, questo non dovrebbe pesare sulle spalle di chi ha sofferto per il malfunzionamento del sistema durante l’ultimo quarto di secolo, ma piuttosto sulle spalle di chi ha beneficiato di questo sistema. (…)
Il sistema economico è governato da un insieme di regole. Ogni insieme di regole favorisce alcuni giocatori alle spese di altri. E le regole influiscono sul funzionamento dell’intero sistema. Negli ultimi trent’anni, abbiamo cambiato molte regole in modo frammentario, sotto l’influenza di un’ideologia per la quale le regole migliori erano quelle che interferivano il meno possibile con i mercati. Questo, almeno, era ciò che sostenevano i loro difensori. Ma, nella pratica, il loro programma è stato ben diverso. La deregolamentazione, infatti, non ha portato a meno, ma a più interventi sul mercato: c’è stata una minore interferenza negli anni precedenti alla crisi, ma molti più interventi nel periodo successivo. Tutto ciò era prevedibile ed era stato previsto. Ciò che i sostenitori del cosiddetto libero mercato stavano creando era un sistema che ho chiamato un «surrogato del capitalismo», il cui elemento essenziale è la socializzazione delle perdite e la privatizzazione dei guadagni. Questo «surrogato» è strettamente legato al capitalismo delle grandi imprese promosso da Bush e da Reagan. In alcuni casi non c’è trasparenza su chi finisce per pagare i regali fatti alle imprese: alla fine, naturalmente, a pagare sono i cittadini – come consumatori o contribuenti – spesso in modi che non sono facili da riconoscere, per esempio, attraverso la tassazione o l’aumento dei prezzi dei beni acquistati.
Alcune delle modifiche alla legislazione durante gli anni di Bush hanno colpito le persone più vulnerabili. Le norme che hanno reso la vita più difficile alle persone più indebitate – insieme alla mancanza di limiti ai tassi da usura che le banche potevano applicare – hanno reintrodotto negli Stati Uniti vincoli di servitù. Questo ha permesso alle banche di essere più avventate nel concedere prestiti, sapendo che esse avevano una maggiore possibilità  di vederseli restituiti, con interessi, non importa quanto oltraggioso fosse il contratto. Si poteva sperare che scrupoli morali potessero prevenire il verificarsi di queste diffuse pratiche predatorie, ma l’avidità  ha trionfato; con i regolatori del mercato che andavano a braccetto con le banche o erano accecati dall’ideologia del libero mercato, non c’è stato alcun controllo su tali pratiche abusive. Le banche avevano scoperto che c’era del denaro alla base della piramide sociale e hanno creato tecniche, e un sistema legale, per farlo muovere verso l’alto. Nessuno, guardando a ciò che è accaduto, direbbe che queste transazioni «volontarie» ma spesso ingannevoli hanno accresciuto il benessere di quelli che stavano alla base della piramide. Alla fine, a farne le spese è stato tutto il sistema mondiale.
Quattro anni dopo l’esplosione della bolla speculativa americana sul mercato mobiliare, che ha trascinato nel baratro l’economia globale, il prezzo di questi misfatti non è ancora stato pagato del tutto. La produzione rimane ben al di sotto del suo potenziale in molti paesi industrializzati, con perdite misurate nell’ordine di migliaia di miliardi di dollari. A queste vanno sommate le perdite dovute alla cattiva allocazione del capitale da parte del settore finanziario e alla cattiva gestione del rischio prima della crisi. A parte i periodi di guerra, nessun governo è stato mai responsabile di perdite cosi ingenti come quelle causate dalla condotta del settore finanziario. E tuttavia, quattro anni dopo, le regole del gioco, le regolamentazioni che il governo impone alle banche, devono ancora essere cambiate. Gli incentivi al rischio e alla speculazione di breve periodo rimangono; il problema dell’azzardo morale posto dalle banche «troppo grandi per fallire» si è aggravato, non si è ridotto. In alcune aree ci sono stati miglioramenti, ma anche in questi casi le leggi rimangono piene di esenzioni ed eccezioni, basate non su ragioni economiche ma sul bruto potere delle lobby.
Ogni società  si fonda su un senso di coesione sociale e di fiducia, sul senso di equità . Non dovremmo sottovalutare le conseguenze che la crisi – e il modo in cui è stata affrontata – hanno avuto nello spezzare il contratto sociale e tutti quegli elementi che garantiscono il corretto funzionamento di una società . Che i banchieri abbiano perso la fiducia dei loro clienti è ovvio; una banca che aveva attuato pratiche ingannevoli ha semplicemente sostenuto che prendere precauzioni era responsabilità  di altri; le banche di cui ci si possa fidare appartengono chiaramente al passato. La disuguaglianza viene di solito giustificata con il fatto che chi è pagato molto ha reso un maggiore contributo alla società , di cui tutti beneficiamo. Ma quando chi paga le tasse finanzia i bonus dell’ordine di milioni di dollari che vanno ai banchieri – che sono stati responsabili di perdite dell’ordine di miliardi di dollari per le loro aziende, e dell’ordine di migliaia di miliardi per la società  – tutto questo non ha più alcun senso. Quando un esponente dell’amministrazione Obama ha annunciato il «doppio standard» – i lavoratori dovevano riscrivere i loro contratti per rendere le imprese dell’auto più competitive, ma i contratti dei banchieri erano sacrosanti e non potevano essere rivisti – anche questo ha mostrato che il sistema è fondamentalmente ingiusto, e che il governo, piuttosto che correggere le iniquità , vuole mantenerle.
Quel che è peggio, ai cittadini è stato chiesto di subire politiche di austerità , maggiore disoccupazione e tagli ai servizi pubblici per pagare i debiti provocati dal comportamento della finanza e in parte per proteggere gli azionisti e i possessori di titoli delle banche. Un’economia non può funzionare senza la fiducia, e quando le banche insistono a voler tornare ai comportamenti di prima della crisi i cittadini sono giustamente scettici. La fiducia non tornerà  fino a quando non saranno introdotte regole buone e rigide, fino a quando non verrà  ristabilito un nuovo senso di equilibrio. Il settore finanziario dovrebbe servire l’economia – non viceversa. Abbiamo confuso i fini con i mezzi.
Oggi abbiamo le stesse risorse – in termini di capitale umano e fisico – che avevamo prima della crisi. Non c’è ragione per cui dovremmo aggiungere agli errori che ha fatto la finanza nella cattiva allocazione del capitale prima della crisi, l’ulteriore errore di sottoutilizzare le risorse della società  dopo la crisi. La tecnologia moderna ha la capacità  di accrescere il benessere di tutti i cittadini – e tuttavia in molti paesi – Stati Uniti inclusi – abbiamo creato un’economia in cui la maggior parte dei cittadini peggiora la propria condizione anno dopo anno. Possiamo anche vantarci dell’aumento del Pil, ma cosa c’è di buono se quest’incremento non si trasforma in benefici per i comuni cittadini? Se la crescita economica non porta a più ampi miglioramenti del benessere? O se questi incrementi sono effimeri e non sostenibili sia dal punto di vista economico che ambientale?
Le sfide che i governi, le nostre società  e le nostre economie devono affrontare sono enormi. Forse non siamo più sull’orlo del baratro in cui eravamo nell’autunno del 2008, ma non siamo ancora fuori dai guai. Anche se profitti, bonus e crescita sono tornati, non potremo cantare vittoria fino a quando la disoccupazione non sarà  tornata ai livelli di prima della crisi, e fino a quando i redditi reali dei lavoratori non saranno aumentati e non avranno recuperato le perdite subite in questi anni. Possiamo farcela – ma solo se sapremo correggere gli errori del passato, cambiare direzione e tenere bene a mente i veri obiettivi per i quali dobbiamo batterci.
* Premio Nobel per l’economia nel 2001, è professore alla Columbia University. Questo testo è apparso come prefazione al volume dell’Istituto Sindacale Europeo-ETUI Exiting from the crisis: towards a model of more equitable and sustainable growth (Etui, 2011) ed è leggibile in versione integrale su ilmanifesto.it e sbilanciamoci.info (Traduzione di Silvio Majorino)


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