TEMPO SCADUTO

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Ed effettivamente Berlusconi è ancora a palazzo Chigi, ancora lì e ha intenzione di restarci. Non tanto, però, un paio di mesi.
Da ieri il presidente del Consiglio intravede un traguardo per il suo tirare a campare. Due mesi, il tempo che ci vorrà  per girare attorno all’ormai leggendario decreto per lo sviluppo. A dicembre le elezioni di primavera saranno un orizzonte realistico. E la minaccia ripetuta ieri – o questo governo o le urne – più credibile. Ci fosse davvero un’ipotesi di governo tecnico dovrebbe materializzarsi adesso. Ci fossero davvero un po’ di frondisti della maggioranza disposti a rischiare il seggio e la rabbia del cavaliere dovrebbero sfiduciarlo adesso. Mandarlo a casa in autunno. Più avanti sarebbe troppo tardi. Anche perché sciogliere il parlamento e far saltare il referendum farebbe comodo a tutti i partiti. E con questa legge elettorale le elezioni sono un viaggio premio per i più fedeli. I malpancisti avrebbero di che soffrire sul serio.  Nella speranza dei berlusconiani disperati e resistenti il discorso di ieri avrebbe dovuto aprire il secondo tempo del governo. Invece è sembrato di assistere ai titoli di coda. Non è improbabile che sia stata addirittura l’ultima occasione di sentire il cavaliere chiedere la fiducia alle camere. Dovesse cadere per uno sgambetto ricorderemo questo giovedì 13.
Diciassette anni e cinque mesi fa, nel suo primo intervento in parlamento, con un governo circondato dalla preoccupazione per i leghisti e i fascisti, Berlusconi esordì con un solenne richiamo alla «base giuridica e di principio della nostra costituzione». Ieri, al contrario, ha sostenuto che la costituzione è stata riscritta dalla prassi e che il parlamento conta nulla. Dopo di lui ci sono solo le elezioni: «Questo è il sale della democrazia nell’era del bipolarismo», ha detto. E volendo dire «giuridico» ha detto «giudiziario», un lapsus che spiega abbastanza bene cosa ci ha portato fin qui.
Dal punto di vista della costituzione materiale il capo dello stato ha concesso abbastanza al presidente del Consiglio, come già  l’anno scorso quando lasciò al cavaliere il tempo di acquisire una maggioranza per la fiducia. Questa volta Napolitano ha risparmiato a Berlusconi un passaggio al Quirinale, nonostante secondo molti costituzionalisti e i precedenti della prima Repubblica (ma nel governo Goria c’era qualcuno che è al governo ancora oggi) la bocciatura del rendiconto generale fosse assimilabile a un voto di sfiducia. Berlusconi ha ringraziato il capo dello stato ancora una volta con le parole di Ferrara: «Impeccabile». Poi ha trasformato quella che doveva essere la sua ultima chance in un rancoroso avvertimento: «È finita l’epoca in cui i governi li facevano una casta di capi partito».
Oggi i capi partito fanno direttamente il parlamento, si potrebbe rispondere, e continueranno a farlo con il porcellum elettorale che come tutti gli orrori transitori di questo paese si dimostra inattaccabile. A votare, da ieri è più probabile, andremo l’anno prossimo e non sarà  un disastro per i famosi mercati, non più della permanenza di questo governo. Che è paralizzato da una maggioranza dove si agitano progetti diversi e identiche paure. Ieri Berlusconi si è ravvivato solo ascoltando l’intervento di due deputati ex responsabili, D’Anna e Scilipoti, che lo invitavano a fregarsene di tutti gli adulatori, «lei che è un uomo di estrema intelligenza».
Nell’immobilismo sarà  la forza di gravità  a decidere. E le elezioni anticipate, probabilmente la soluzione migliore da molto tempo ormai, arriveranno prima che il Pd avrà  deciso se augurarsele o fare di tutto per evitarle. Se approfittarne per regolare qualche conto interno, giocare per perdere o, addirittura, provare a vincerle.


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