Bacio il rospo Monti. Però…

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Confesso innanzitutto che se fossi stato a Roma, sabato scorso, avrei probabilmente preso una bandierina (tricolore) e sarei sceso in strada a festeggiare. Perché quella sera, alle 21 e 42, è davvero finito “ufficialmente” il berlusconismo. So benissimo che la sconfitta di Berlusconi viene da lontano, da Milano, con la vittoria di Pisapia, dal referendum con i 27 milioni di persone che gli hanno disubbidito, e prima ancora dal 14 febbraio con quel popolo rosa che ha detto «se non ora quando». Ma sabato è successa una cosa in più. Per la prima volta nella sua vita politica Berlusconi ha dovuto arrendersi alla realtà .
E l’essenza del suo stile politico – l’anima del berlusconismo – sta esattamente nell’opposto: nella negazione sistematica del mondo qual è. Nella costruzione per via narrativa – appunto, da grande illusionista – di una realtà  immaginaria, parallela, fantasmagorica e totalizzante, rispetto alla quale la capacità  di farla credere e di farci accomodare dentro il “suo popolo” era la misura e la sostanza del suo potere. Con quell’uscita vergognosa, dalla porta secondaria del Quirinale, in una Roma festante, quella bolla è scoppiata.
Di fronte all’evidenza che intorno c’era un mondo coriaceo e ostile, che gli resisteva e lo cacciava, è finita irrimediabilmente la leggenda del Grande Narratore.
Confesso anche – e la cosa mi costa un po’ di più – che ho fatto il tifo per Mario Monti. Forse per una questione di pelle. Più estetica (ed etica) che politica. Perché dopo tanto strepitare sopra le righe, dopo la volgarità  al potere, il disgusto quotidiano e lo strepito da caravanserraglio, i troppi nani e ballerine e paillettes e cotillon nel cuore dello Stato, la sua normalità  sembra un miracolo. La sua sobrietà  di abito e di parola una rivoluzione. Ma anche perché, politicamente, mi rendo conto che al suo governo non ci sono alternative. Che il suo ingresso a Palazzo Chigi ha il senso di un’ultima chiamata, oltre la quale non c’è un’altra soluzione politica possibile, ma solo il vuoto in cui tutti, nessuno escluso, finirebbero per schiantarsi (l’insolvenza dello Stato, la sospensione del pagamento degli stipendi ai dipendenti pubblici, il blocco del credito bancario, la paralisi del sistema produttivo, da cui una astrattamente desiderabile campagna elettorale non ci avrebbe messo al sicuro, anzi…). Non so se la nascita del suo governo sarà  sufficiente a metterci al riparo, almeno temporaneamente, dalla tempesta che ci infuria intorno. Ma so che ne è – anche sul piano dello stile – la condizione necessaria.
Detto questo, testimoniato il nostro “senso della realtà “, non possiamo tuttavia nasconderci il significato profondo – la gravità  – degli avvenimenti di questi giorni. Il carattere di discontinuità  che essi introducono nella vicenda della nostra Repubblica. Nessuna delle prescrizioni formali della nostra Costituzione è stata violata nei convulsi passaggi di questa crisi di governo, sia ben chiaro. Ma la nostra Costituzione materiale è mutata. E in alcuni suoi aspetti di fondo, a cominciare da quel tratto costitutivo di ogni forma di governo che è il rapporto tra potere legislativo e potere esecutivo. Costituzionalmente noi nasciamo e siamo una Repubblica Parlamentare. Anzi: un parlamentarismo di partito. Il luogo naturale e genetico dell’indirizzo politico – la sede in cui nascono e muoiono i governi – è il Parlamento. E qui il Parlamento (come d’altra parte il Governo) è stato, nei passaggi cruciali, fuori gioco. Nella migliore delle ipotesi una controfigura, mentre il baricentro dell’iniziativa politica è passato – in un’evidente situazione di emergenza – alla Presidenza della Repubblica, per una semplice ragione. Perché la politica nella sua sede naturale aveva fallito. Perché la sede parlamentare, come luogo della decisione politica, era implosa. I suoi soggetti primi, i Partiti, si erano estenuati e neutralizzati, fino all’assoluta impotenza. In un Parlamento bloccato da una maggioranza tecnica ma non più politica, costruita a colpi di compravendita (in un Parlamento che aveva tragicamente assunto il volto farsesco dell’on. Scilipoti), nel vuoto, dunque, del “potere primo”, l’iniziativa è passata a un potere “secondo” (anzi, al “potere terzo”, perché così lo configura la Costituzione), che ha deciso.
Non può non venire in mente – absit iniuria verbis – la vicenda costituzionale della Repubblica di Weimar, e il famigerato art. 48 che assegnava al Presidente la facoltà  di proclamare, in caso di emergenza, l’Ausnahmezustand, lo «stato d’eccezione», assumendovi poteri straordinari. Riflettendo proprio su quell’istituto un grande giurista del tempo, Carl Schmitt, elaborò la propria teoria della sovranità  che definiva appunto il Sovrano come «colui che decide sullo stato d’eccezione» (e, occorre aggiungere, nello stato d’eccezione). Ora, Schmitt appartiene a quella schiera di “pensatori maledetti” che hanno dato voce e forma ai demoni del Novecento. Ma il suo modello d’interpretazione appare ancora assai utile per tracciare una mappa del potere contemporaneo. Se ad esempio ci chiediamo, in quell’ottica, chi sia stato in questi giorni il Sovrano in Italia, la risposta non può essere che una: Giorgio Napolitano. Non il Parlamento, non il Governo, ma il Presidente della Repubblica, il secondo corno del potere esecutivo, quello meno rilevante in condizioni di normalità .
Se poi allarghiamo il raggio dello sguardo a livello europeo, dobbiamo concludere che qui Sovrana è la Bce, la Banca centrale, un organo amministrativo dunque, e tuttavia dotato della medesima discrezionalità , dello stesso decisionismo, e anche della stessa furia ideologica della politica. E se dalla dimensione continentale passiamo a quella globale la risposta alla domanda “chi è il Sovrano” non può essere che una: i Mercati. Il loro potere arbitrario e definitivo, giudice della vita e della morte dei popoli e dei Paesi (Grecia docet). Ma i mercati – mai come oggi lo si può vedere ad occhio nudo – sono un Sovrano distruttivo. Un Crono che divora i suoi figli. Un Leviatano non vincolato da nessun patto, impegnato in uno shopping feroce che passa da uno stato all’altro, da una Borsa all’altra, con una logica che comporta nei propri codici l’auto-distruzione, lasciandosi alle spalle macerie e rovine. Da essi non ci si può aspettare non dico una società  giusta, ma neppure un qualche tipo di società .
Ora, che ci si può aspettare – in questo quadro – dal governo che nasce? Mario Monti, lo sappiamo (e non dobbiamo nascondercelo) è impastato, almeno in parte, di quella stessa logica. Ne condivide alcuni punti fondamentali. Non ci potrà  dare, quali che siano le sue intenzioni, “libertà  e giustizia”. Ed è persino difficile immaginare che chi sta dentro la cultura che ha prodotto la crisi possa, con quella stessa cultura, mettere in campo la cura definitiva. Quello che possiamo aspettarci è un riallineamento economico e finanziario – ma soprattutto in termini di credibilità  e autorevolezza – all’Europa. Un riavvicinamento alla crisi degli altri. Cioè il ritorno a una qualche temporanea normalità  (pur nell’emergenza che segna il nostro tempo) perché, riconquistata cittadinanza nel nostro continente, si possa aprire un contenzioso vero con l’Europa e i suoi dogmi, se qualcuno, nel frattempo, nel disastrato universo politico (o fuori di esso, in un “sociale” finora troppo silenzioso e pigro), avrà  saputo elaborare una cultura altra. Un’alternativa “di modello” plausibile.
Non sarà  facile, anche questo programma minimo. Bene che vada, la sua squadra di tecnici dovrà , volente o nolente, rassegnarsi a governare sopra e contro una società  politica fallita e tuttavia ancora dotata di un forte potere di interdizione, sospendendone alcune prerogative. Avendo il coraggio di praticare l’istituto temporaneo ed eccezionale che nell’antica Roma aveva il nome di “dittatura commissaria”. E costruendosi strada facendo la propria legittimazione: un percorso improbo, perché si troverà  ad amministrare galleggiando su un Parlamento frammentato nei 34 gruppi che ha consultato (e chissà  quanti altri se ne aggiungeranno, nell’anno che viene), rissoso e miope, dimostratosi drammaticamente irresponsabile. In cui i contenitori partitici che avevano strutturato la nostra forma politica rischiano, ad ogni passaggio, di liquefarsi. E in cui, soprattutto, si aggira ancora il fantasma non placato del vecchio premier, vulnerato ma non cancellato.
Ho detto, all’inizio, che il berlusconismo era finito. E lo ripeto. Ma questo non vuol dire che scompaia anche la figura di Berlusconi. Così come nel 1943 finì il fascismo, ma il suo ex capo Benito Mussolini continuò a devastare il paese per altri venti mesi, allo stesso modo l’Italia dovrà  continuare a vedersela con un Silvio Berlusconi fattosi cavaliere di ventura, e con le sue scorrerie politiche, finanziarie e giudiziarie… In fondo, occupa ancora quasi la metà  del Parlamento: per il gioco allo sfascio i numeri li avrebbe tutti. La Lega questo passaggio l’ha già  compiuto, scommettendo sul fallimento dell’Italia, e preparandosi ad accelerarlo pur di sfuggire al nulla in cui si è confinata attraverso l’uscita di sicurezza della secessione. Se la strana coppia che ci ha portato sull’orlo dell’abisso si ricomponesse sulla linea di un nichilismo politico programmatico, allora davvero il nostro 12 novembre più che a un 25 aprile finirebbe per assomigliare, tristemente, a un 25 luglio. E davvero diventerebbe non più rinviabile il tempo delle scelte.


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