Una presa di parola lunga un anno

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La gru occupata a Brescia, la rivolta di Rosarno, lo sciopero del primo marzo. Sono le tappe più note delle mobilitazioni dei migranti in Italia L’affermazione che «in Italia non accade nulla», almeno fino al 15 ottobre utilizzata per segnare la differenza tra le piazze di casa nostra e i nuovi laboratori democratici rappresentati da quelle di Madrid o New York (lasciando solitamente da parte Atene), è risuonata spesso nei commenti agli avvenimenti degli ultimi mesi. Più che a una carenza di informazioni, i toni assertivi di questa considerazione sono dovuti a un deficit di chiavi interpretative sulla realtà  che, certo, non riguarda solo il mondo dell’informazione, ma la cultura politica più in generale. In questo panorama, La normale eccezione (Edizioni Alegre), ovvero il titolo scelto dai curatori di questo volume Felice Mometti e Maurizio Ricciardi per raccontare un anno di lotte dei migranti da Rosarno a Manduria, è doppiamente pertinente nel cogliere, da un lato, la cifra che caratterizza i dispositivi giuridici di governo delle migrazioni e nel segnalare, dall’altro, un’eccezione rispetto al benevolo paternalismo all’interno del quale, nel migliore dei casi, si tende a normalizzare la rappresentazione della soggettività  politica dei migranti.
A partire dalla rivolta di Rosarno nei primi mesi del 2010, fino alle fughe dalla tendopoli di Manduria nella primavera del 2011, passando per lo sciopero del primo marzo e per le proteste sulla gru di Brescia e sulla torre di Milano, l’Italia è stata teatro di una serie di lotte che hanno visto i migranti come protagonisti e sono state caratterizzate da una complessità  dei soggetti e degli ambiti lavorativi coinvolti «non sempre altrettanto evidente altrove in Europa». Non è in quest’ordine cronologico che i curatori del volume, scelgono tuttavia di raccontare gli avvenimenti, la cui genealogia in molti dei casi è da ricercare più indietro. Sarebbe infatti difficile comprendere la determinazione che ha portato i migranti a resistere per 17 giorni su una gru a 35 metri di altezza senza ricordare, così come fa il saggio di Daniele Piacentini, il ruolo e le trasformazioni vissute da una delle realtà  di organizzazione dei migranti – quella di Brescia, appunto – che negli anni è divenuta un riferimento nazionale. Da questo punto di vista, sono interessanti le osservazioni sul rapporto intrattenuto dai migranti con le comunità  di appartenenza che ha caratterizzato rispettivamente le mobilitazioni degli anni Novanta del Novecento, in cui il ruolo «difensivo» delle comunità  nazionali era ancora prevalente, la lunga occupazione di piazza della Loggia nel 2000, che ha trovato il suo punto di forza nell’alleanza tra i migranti privi di documenti e quelli regolari, e la protesta della gru dell’autunno 2010, che ha coinvolto una composizione variegata di migranti «insofferenti alle regole e alle gerarchie delle comunità  di appartenenza».
La complessità  della composizione soggettiva dei protagonisti della protesta, nonché la loro irriducibilità  a categorie semplificatrici come quelle di migranti regolari o clandestini, è la chiave offerta anche da Luca Cobbe e Giorgio Grappi per comprendere gli eventi di Rosarno e il ruolo propulsivo che questi hanno avuto rispetto allo sciopero del primo marzo 2010. Quella che i due autori del saggio definiscono come la «regolare irregolarità  del lavoro migrante» non riguarda, infatti, solo i migranti da poco sbarcati sulle coste del Sud. Le fabbriche verdi di Rosarno, della Puglia o della Sicilia si riempiono d’estate di migranti ex-operai o cassaintegrati provenienti dal Nord e «spinti dalla crisi a integrare – o sostituire – il loro reddito con altre attività  lavorative». Vista in questa luce, la piazza di Rosarno potrebbe essere letta addirittura come una delle prime risposte di «indignazione» alla crisi economica globale che si protrae dal 2007. Se è vero, poi, che – come nel caso della recente giornata degli indignati – l’organizzazione dello sciopero del primo marzo 2010 rispondeva a una chiamata venuta «da fuori» (per la precisione dalla Francia), in Italia essa ha assunto connotati particolari, fornendo l’occasione per ripensare quel rapporto di rappresentanza sindacale del lavoro migrante che proprio a Rosarno aveva mostrato tutta la sua inadeguatezza. Per gli autori del saggio, la posta in gioco della mobilitazione Italiana del primo marzo 2010 è stata quella di mettere l’organizzazione e la composizione del lavoro migrante al centro del discorso, in luogo dell’antirazzismo. In altre parole, è stata lo sciopero stesso, come sfida a chi, anche nel sindacato, aveva definito uno sciopero dei migranti come uno «sciopero etnico» che metteva a rischio l’unità  del lavoro.
A sette anni da un altro volume sul tema, curato sempre da Maurizio Ricciardi con Fabio Raimondi (Lavoro Migrante. Esperienza e prospettiva, DeriveApprodi), la tesi di fondo dei curatori mette in luce come la commistione dei modelli di organizzazione del lavoro dei migranti si rifletta sulle sperimentazioni e ibridazioni delle modalità  di organizzazione delle lotte. L’impossibilità  di identificare ancora una figura centrale del lavoro, attorno alla quale nel Novecento è stato costruito il modello giuridico del cittadino, segna da un lato la «catastrofe della concezione progressiva del lavoro» e dall’altro di quella «lineare e progressiva dei diritti di cittadinanza», spacciata come posta politica a cui dovrebbe tendere una pacificata integrazione dei migranti. Le rivolte dei paesi arabi che – come racconta il saggio di Gianni De Giglio – la «voglia di libertà » dei migranti ha portato fino in Italia, a Lampedusa così come a Manduria, mettono poi a nudo la «catastrofe» della cittadinanza europea e il fallimento del tentativo di governare le frontiere della UE attraverso un’«inclusione differenziale» nei diritti.
Fornire chiavi di interpretazione sulla realtà  implica «prendere parte» e costruire narrazioni che, inevitabilmente, rivendicano i limiti della propria parzialità . In quanto parziali, con tali narrazioni si può concordare o meno, ma sono indispensabili per evitare l’equivoco di anteporre alle forme concrete e inaspettate che assume la soggettivazione politica le proprie aspettative su quali siano o meno le espressioni legittime e rilevanti di indignazione. Le piazze italiane sono state spesso occupate da migranti, a Brescia nel 2000 piazza della Loggia fu occupata per 54 giorni. Tra il 2010 e il 2011 molte piazze hanno visto il protagonismo dei migranti. E molte ancora lo vedranno.


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