Deflazione, il grande rischio

Loading

Una buona notizia di Natale: non è detto che l’Europa cada nella morsa della deflazione. Vero, il rischio che i prezzi inizino a scendere a causa della crisi economica e della scarsità  di denaro in circolazione preoccupa molti. Nei santuari del denaro come nei mercati rionali. Ieri, per esempio, Lorenzo Bini Smaghi, membro del consiglio direttivo della Banca centrale europea, sosteneva — in un’intervista al «Financial Times» — che la Bce dovrebbe prendere misure straordinarie se nell’Eurozona dovessero crearsi pericoli di deflazione. Sempre ieri, in un negozio di Via Montenapoleone, a Milano, tra i pochi clienti una coppia parlava di un costoso cappotto: «Lo compriamo ora — chiedeva la moglie — oppure aspettiamo i saldi?»; «Aspettiamo un mese — rispondeva il marito — vedrai i prezzi crollare, altro che saldi». Lo scenario tracciato al trentaquattresimo piano dell’Eurotower di Francoforte e sulla strada della moda milanese non è però scontato che si avveri.
Innanzitutto, per ora la Bce e il suo presidente Mario Draghi non vedono deflazione all’orizzonte. L’aumento dei prezzi, nell’area euro come in Italia, anzi, è ai massimi da tre anni, superiore di oltre un punto percentuale a quello che è il target della banca centrale, fissato «attorno ma sotto» al due per cento. La recessione nella quale l’Europa sta entrando avrà  probabilmente l’effetto di fare scendere i prezzi, nel 2012. E il costo del petrolio — che oggi pesa per l’uno per cento dell’inflazione — dovrebbe diminuire. Ciò nonostante, la società  di analisi Ihs Global Insight prevede per la prima metà  del 2012 l’inflazione dell’Eurozona attorno al due per cento. Per quel che riguarda l’Italia, ieri l’Unioncamere ha annunciato la sua previsione di aumento medio dei prezzi per l’anno prossimo: 2,4 per cento.
Il pericolo, dunque, non sembra immediato. Ciò nonostante, ci sono ragioni serie per vigilare. Con una nuova recessione in arrivo, che molti prevedono profonda e forse anche prolungata, e con il mercato del credito semiparalizzato e tenuto in vita solo dalle iniezioni di liquidità  della Bce, il rischio di entrare all’improvviso in una spirale deflazionistica non può essere corso. In sé, un calo dei prezzi leggero e temporaneo non sarebbe necessariamente una catastrofe: ci sono stati casi di deflazione accompagnati da una crescita dell’economia. Se la deflazione è però forte e non breve i rischi sono elevati: dal momento che i consumatori e le imprese che devono investire si aspettano un calo dei prezzi, tendono a rinviare più che possono sia acquisti che investimenti, con un effetto recessivo, proprio come se aspettassero stagioni dei saldi a ripetizione. Se le cose, a quel punto, finiscono fuori controllo, si crea una spirale deflazionistica: il calo dei prezzi e il comportamento di consumatori e imprese porta a una caduta della produzione e a una riduzione dei salari e dell’occupazione.
Qualcosa del genere successe drammaticamente tra il 1930 e il 1933 negli Stati Uniti, quando i prezzi medi crollarono di circa il dieci per cento l’anno, contribuendo alla Grande Depressione. Che la situazione finisca fuori controllo non è però un destino: tassi d’interesse vicini allo zero e interventi di creazione di liquidità  da parte delle banche centrali come quelle che stanno conducendo la Federal Reserve (Fed) americana, la Bank of England e in parte la Banca centrale europea possono interrompere la spirale deflazionistica. Negli Anni Trenta avvenne il contrario, le banche centrali alzarono i tassi d’interesse e drenarono denaro invece di immetterne: la Fed per il 30 per cento, provocando fallimenti bancari a catena. Ora, la lezione della Grande Depressione sembra più o meno imparata, i banchieri centrali si dicono convinti di potere controllare il gioco, a cominciare dal presidente della Fed Ben Bernanke.
In realtà , dall’inizio degli Anni Novanta — alla fine del boom del decennio precedente — il Giappone non c’è riuscito. Nonostante nel tempo abbia abbassato a zero i tassi d’interesse e tentato di stimolare l’economia con cento mila miliardi di yen (980 miliardi di euro) di spesa pubblica, la deflazione abbinata alla recessione si è più volte ripresentata (l’ultima nel 2009). Il Giappone, però, ha caratteristiche particolari, al punto che qualcuno ritiene che la deflazione nipponica sia più politica che monetaria. Il Paese, infatti, soffre di un invecchiamento avanzato e la quota di pensionati è in crescita veloce. La loro influenza sulle politiche è molto forte. E dal momento che gli anziani — cioè coloro che hanno la maggiore quantità  di risparmi — sono i più avvantaggiati dalla deflazione e dai tassi d’interesse reali positivi anche quando quelli nominali sono a zero, secondo questa teoria sarebbero stati gli anziani a frenare le politiche di Tokyo a sostegno dei prezzi. Il Sol Levante, dunque, potrebbe non fare testo.
Al di là  degli effetti depressivi, una deflazione avrebbe però anche la conseguenza di distorcere in misura significativa i mercati e la distribuzione del reddito: dal calo dei prezzi guadagnerebbe chi ha un reddito fisso; perderebbe chi ha debiti, i quali si rivaluterebbero in termini reali; diminuirebbero gli investimenti e i prestiti bancari anche perché tenere denaro liquido potrebbe essere più vantaggioso. Per tutte queste ragioni, va evitata.
L’iniziativa della Bce, nei giorni scorsi, di immettere nel sistema 489 miliardi di liquidità  va in questa direzione: contrastare il crollo della moneta in circolazione, una delle cause possibili di deflazione. Potrebbe non essere sufficiente. Una delle altre ragioni alla base di un crollo dei prezzi può essere la caduta della velocità  di circolazione del denaro, qualcosa che è in atto: una parte consistente dei 489 miliardi che hanno preso a prestito dalla Bce le banche l’hanno subito parcheggiata presso la banca centrale stessa, cioè non l’hanno immesso nell’economia. Perché — come insegna il Giappone — la risposta alla deflazione non è solo monetaria, è anche politica: per la delusione della signora di Via Montenapoleone, se non torna la fiducia il cappotto resterà  dov’è.


Related Articles

Salari e redditi fermi da 20 anni l’Italia si scopre più povera

Loading

Rapporto Istat: precari al top dal ‘93, Sud alla deriva   Nel Mezzogiorno, sono in difficoltà  23 famiglie ogni cento contro le 4,9 del SettentrioneNel 2011 l’export nazionale è cresciuto dell’11,4%, ma si è anche ridotta la nostra quota nel commercio mondialeFinalmente il Paese ha compreso di essere vulnerabile, decisioni politiche più veloci e consapevoli. E’ l’anno più duro 

A Bernanke resta solo l’arma del credito facile e la speculazione fa festa a Wall Street

Loading

I mercati puntano su altra liquidità , ma all’economia reale non serve.  Nuova corsa ai titoli del Tesoro, quelli a breve scadenza: i rendimenti scesi ai minimi. Nonostante la terapia, la disoccupazione americana resta superiore al 9%

No comments

Write a comment
No Comments Yet! You can be first to comment this post!

Write a Comment