“Resto un uomo di sinistra folgorato da Sartre e Russell”

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MILANO – Il 5 gennaio il mitico pianista Maurizio Pollini compie settant’anni, e la scadenza incombe come un accidente più che mai importuno su questo personaggio notoriamente schivo, in quanto portatrice di assillanti richieste d’interviste e di minacciosi inviti a celebrazioni in suo onore. Chiaro che qualche fanfara sia prevedibile e inevitabile per quest’interprete adorato dal pubblico e considerato il massimo pianista vivente. Ma lui sarebbe più contento di scavalcare nel silenzio la ricorrenza, anche perché «vivo proiettato nei progetti del futuro», dice nella quiete del suo appartamento milanese, «e con i compleanni il futuro si restringe».
Parliamone, di questi suoi progetti.
«A uno tengo in modo particolare: nato in seno al festival di Lucerna, è articolato in due estati, 2011 e 2012, e consta di quattro programmi nei quali, accanto alle ultime Sonate di Beethoven, eseguo pezzi di compositori moderni come Stockhausen e opere commissionate ad autori contemporanei quali Manzoni, Lachenmann e Sciarrino. La serie viene ripresa a Parigi, Berlino e Tokyo, e forse sarà  alla Scala nella stagione 2013-2014. Poi, oltre a vari concerti (tra cui due a Roma, per Santa Cecilia, uno in gennaio con Pappano e l’altro da solo in febbraio), ci sono le incisioni. Mentre la Deutsche Grammophon lancia 3 box di cd di mie esecuzioni, uno tutto su Chopin, un altro sul Novecento, e il terzo eterogeneo e rappresentativo delle mie linee di repertorio, penso al completamento della registrazione delle Sonate di Beethoven e al secondo Concerto di Brahms, che farò l’anno prossimo con Thielemann, col quale ho già  inciso il primo. E in primavera uscirà  un nuovo disco dedicato a Chopin».
Maestro: lei suona da una vita. Da quando di fronte a un pubblico?
«Piccoli recital li feci a nove anni. Cose da dimenticare…».
Poi la vittoria, diciottenne, al Concorso Chopin, e una carriera scandita da un’incrollabile tenacia nella difesa delle proprie scelte. 
«Scelte dettate dalla volontà  di suonare solo composizioni in cui credo e delle quali non potrò mai stancarmi. Il criterio del mio repertorio è quello di un interesse che non rischia di estinguersi: ci sono opere che non finisco mai di riscoprire». 
Quest’interesse è rivolto anche alla musica contemporanea. Perché il pubblico continua a sentirla ostica e lontana?
«Perché i processi storici sono lenti: la gente si avvicina gradualmente alle composizioni più audaci, anche perché non aiutata da un numero sufficiente di esecuzioni. In passato ci sono stati ritardi fenomenali. L’ultimo concerto di Mozart per pianoforte e orchestra, il K 595, oggi considerato tra i più belli, fu suonato per la prima volta in tempi moderni da Schnabel a Vienna, negli anni Trenta del Novecento; e Toscanini e Serkin, dagli Stati Uniti, gli scrissero per chiedergli se valeva la pena di eseguirlo. Quando, verso il 1840, Wagner diresse la Nona di Beethoven, questa sinfonia era ancora considerata quasi inascoltabile, e quando Liszt eseguì l’opera 106 di Beethoven, era reputato un pezzo estremo per difficoltà  tecnica e concettuale».
Quali sono stati per lei gli incontri più decisivi? 
«Tanti: Rubinstein, Serkin, Horowitz, Rostropovich, Karajan… Rubinstein era il pianista che amavo di più da ragazzo. Poi diventammo amici, e furono preziose le sue osservazioni su varie composizioni, tra cui il primo Concerto di Brahms. Lo aveva suonato a inizio Novecento a Berlino con Joachim, famoso violinista molto vicino a Brahms e suo interlocutore privilegiato durante la creazione del concerto. Perciò ne conosceva ogni dettaglio, e m’insegnò cose essenziali sui piccoli cambiamenti di tempo, modifiche che dovevano risultare impercettibili. “Noi sappiamo che acceleriamo, ma il pubblico non deve accorgersene”, mi disse». 
Con Karl Bà¶hm, pupillo di Strauss, incise Mozart, Beethoven e Brahms.
«Ricordo la nostra registrazione del Concerto “Imperatore” di Beethoven. Volevo rifare il primo tempo, che avevamo già  eseguito due volte, ma lui era così scosso da quella che chiamava “l’atmosfera” del brano, che ebbe difficoltà  a tornare sul podio. La sua tensione nervosa dipendeva da un enorme senso di responsabilità  verso il compositore».
Pensa di aver subìto influssi anche da non musicisti?
«Un forte punto di riferimento intellettuale è stato per me Bertrand Russell, con la sua intelligenza anticonformista in ogni sua applicazione. E uno dei testi che mi colpì di più, quand’ero giovane, fu quello scritto da Sartre in occasione della rivolta di Budapest nel ‘56. Un saggio illuminante e sofferto, perché era un uomo di sinistra a condannare l’intervento sovietico in Ungheria».
E lei, Pollini, si sente ancora un uomo di sinistra? 
«Destra e sinistra: oggi, quando si dicono parole come queste, sembrano non aver più peso. Eppure io mi considero senz’altro un uomo di sinistra».
A settant’anni cos’ha concluso? Che nell’eseguire musica conta di più l’architettura logica o l’emozione? 
«In un’arte come la musica, che consiste nel dire ciò che non può essere detto a parole, l’aspetto irrazionale ed emotivo è assolutamente fondamentale».


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