Da Vermeer a Kandinsky Le affinità  elettive dei capolavori

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Linea d’ombra, la società  creata da Marco Goldin per l’organizzazione di eventi espositivi compie 15 anni. E alla sua festa ha invitato una sessantina di opere dei più grandi artisti attivi in Europa dal Cinquecento al Novecento. Che sono arrivate a Castel Sismondo a imbastire un appassionante viaggio nella storia dell’arte: la mostra intitolata Da Vermeer a Kandinsky. Capolavori dai musei del mondo a Rimini, curata dallo stesso Goldin, che spiega: «Vorrei che il visitatore avesse la sensazione di sfogliare le pagine non di un libro, ma di un museo. Così inizialmente avevo pensato di allestire le opere per scuole regionali e in ordine cronologico: Venezia nel Cinquecento, i Paesi Bassi nel Seicento, il paesaggio inglese ecc. E invece ho deciso di mescolare queste carte che compongono il meraviglioso racconto dello sguardo occidentale e di far parlare tra loro dipinti anche geograficamente lontani, separati da secoli». Che di cose da dirsi ne hanno davvero molte. 
I casi più clamorosi di questo dialogo a distanza si trovano nell’ottava sala dell’esposizione, una delle ultime del percorso, dove tutto è tenuto insieme dalla rappresentazione del corpo. Uno di fronte all’altro vi sono le Deposizioni eseguite da Tintoretto e da Jacopo Bassano, due protagonisti della pittura veneziana del Cinquecento, e un’infuocata e drammatica triade di dipinti di Francis Bacon, datati 1988 che compongono l’ultimo trittico eseguito da questo grande cantore del dolore dell’uomo, del suo tragico stare al mondo. Ma c’è una sofferenza anche nei due quadri del Cinquecento, in quei Trasporti di Cristo che esprimono, in contrasti di luce e ombre, la tragedia della morte di un Dio che si è fatto uomo. Le figure di Bacon che ghignano, gridano, sono deformate e menomate, hanno una fratellanza antica con il vortice e la vertigine che emerge dal quadro di Tintoretto, dove la Vergine svenuta ha la testa che sembra uscire dalla cornice, tanto è potentemente gettata verso lo spettatore. Al punto che ti viene quasi di sorreggerla, di accarezzare il velo che le cinge la fronte. A pochi metri ecco Picasso e Veronese, quattro secoli di differenza, ma in comune un’agitata composizione verticale. 
Un altro incontro tra due mondi che si riconoscono è quello tra il San Francesco, spoglio, solenne, tutto risolto in una fissità  dominata da un’ombra che pare la quintessenza dello spirito, eseguito da Francisco Zurbarà¡n in Spagna tra il 1640 e il 1645 e la Cantante di strada dipinta da Edouard Manet nella Parigi della seconda metà  del XIX secolo, mentre sorgeva l’alba della modernità . La donna ritratta in questo quadro molto amato da Emile Zola è Victorine Meurent, la modella preferita di Manet, la stessa che farà  scandalo con la sua nudità  priva di orpelli nella Colazione sull’erba esposta con grande clamore al primo Salon de Refusés nel 1863. Eppure tra la chanteuse intenta a mangiare le sue ciliegie da un cartoccio e la sacralità  del santo di Zurbarà¡n ci sono molte cose in comune. Sono due sinfonie in grigio, con le figure in verticale che emergono dal buio. E chiunque conosca un po’ di storia dell’arte sa quanto la pittura spagnola abbia da sempre sedotto Manet, che a differenza di Monet e compagni, non rinuncerà  mai all’uso del nero perché era il colore che lo teneva unito a Velà¡zquez per il quale stravedeva. 
Diego Velà¡zquez lo si incontra poche sale prima con un quadro che ha qualcosa di inquietante e misterioso: Don Baltasar Carlos, primogenito di Filippo IV, ritratto a tre anni in compagnia di una nana di corte. Un capolavoro di stoffe, velluti e broccati ma anche di una crudele dimensione psicologica. Lo accompagna il ritratto di Fratello Hortensio Félix Paravicino di El Greco, l’opera, proveniente dal Museum of Fine Arts di Boston, che ha il più alto valore assicurativo dell’esposizione: 70 milioni di euro. Un quadro mozzafiato, costruito sui bianchi e sui neri, dove la figura seduta su una sedia con una leggera asimmetria ha sguardo vibrante e labbra screpolate. Lo stesso monaco quando vide il dipinto scrisse un sonetto “O greco divino!”. Nella stessa sala ecco il Vermeer giovanile, Cristo in casa di Marta e Maria, che arriva da Edimburgo. Dei 36 quadri conosciuti del pittore di Delft questo è il più grande di dimensioni e l’unico con un soggetto evangelico. La resa della luce nell’interno della casa è già  quella del Vermeer maturo.
Continuando a sfogliare le affinità  elettive create da Goldin, ecco il vedutismo settecentesco di Canaletto e della sua spettacolare inquadratura di Venezia che si confronta con la pittura di paesaggio inglese di Constable e Gainsborough. E poi una carrellata di volti e gesti maschili: su una stessa parete, uno accanto all’altro, cardinali, suonatori, gentiluomini che tengono in mano lettere e libri. Si devono al pennello di Savoldo, Sebastiano del Piombo, Moretto, Moroni e Tiziano. Anche qui la sapienza con cui sono raffigurati vesti e abiti si accompagna all’introspezione psicologica del personaggio, sempre rivelato in tutta la sua individualità . 
C’è un bellissimo quadro di Lorenzo Lotto, una Sacra Conversazione in cui le teste sono tutte volte in direzioni differenti, così che la quiete che solitamente accompagna questo soggetto è abbandonata per una soluzione movimentata e palpitante, con il meraviglioso particolare del bambino che sembra spaventarsi del santo in preghiera di fronte a lui. E poi ecco una di fronte all’altra le due teste bibliche saltate per volontà  femminile: quella di San Giovanni Battista si deve a Mattia Preti, mentre Oloferne decapitato da Giuditta è opera di Francesco Cairo. Siamo tra i caravaggeschi, italiani ma anche fiamminghi, come Gherardo delle Notti, celebre appunto per la sua predilezione nei confronti del buio. Si chiude all’insegna del colore con la felicità  cromatica di Matisse e di Kandinsky. E con un altro dialogo sotterraneo: quello tra Mondrian, che aveva finito per semplificare sempre di più il paesaggio in un’armonica composizione astratta per eliminare il tragico dell’esistenza, e la natura informale di Nicolas De Staà«l con le sue pennellate materiche cariche di pathos. Si leverà  la vita nel 1955, l’anno dopo aver dipinto questa tessitura che diventa luce. Aveva 41 anni.


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