SHORT SELLERS

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Si guardanogli ultimi libri rispettivi dei due Sandri, Baricco e Veronesi, e poi quello di Niccolò Ammaniti o persino quello di Luciano Ligabue, e le rispettive posizioni nelle classifiche; si sentono notizie degli ultimi libri di Nathan Englander e Don DeLillo, non ancora tradotti. Novità  di queste novità : sono tutte raccolte di racconti. Poi si guarda all’altrettanto nuova considerazione con cui in Italia si guarda a una scrittrice, vivente e pressoché classica, di sole short stories come Alice Munro. Viene da pensare: eccola, l’onda lunga delle scritture corte. Per essere lunga, l’onda, è lunga, anzi lunghissima. La nostra tradizione letteraria pende tutta dal lato delle novelle, da sempre, e il filone novecentesco più longevo e influente va da Giovanni Verga e gli scapigliati sino a Gianni Celati; in mezzo tutti gli esperimenti macrotestuali di libri fatti di racconti e «tratti» tenuti assieme da una cornice, da una sequenza temporale, da una trama esile e pretestuosa o da un indice combinatorio (Gadda, Primo Levi, Calvino, Manganelli…). In autori pur diversissimi fra loro e certo imparagonabili, è sempre apparsa una maggiore tenuta nel breve: lo si poteva forse già  dire di Moravia o di Buzzati, e oggi lo si può sostenere di Mari o Nove. La notizia, allora, non è tanto di ordine letterario quanto di ordine editoriale; commerciale, se vogliamo proprio spoetizzarci. Per la prima volta le raccolte di racconti vanno in classifica, e non sono più considerate le cenerentole dell’editoria. Negli Ottanta c’è già  stato certo il caso-Carver (e il più interessante non-caso-Cheever), da allora tutti i minimalismi hanno amato il raccontino come d’altra parte da noi i «cannibali» e i pulp all’esordio. Però il grande pubblico ha incontrato Ammaniti con i romanzi più estesi e Carver tramite la geniale (e fluviale) rifusione che dei suoi raccontini fece Robert Altman nel film Shorts cuts
(in italiano il titolo fu fatalmente deformato nel massimalistico America oggi per l’impossibilità  di rendere la ricchezza di sfumature dell’originale, che letteralmente significa «scorciatoie », ma anche «tagli corti», come corti si tagliano i capelli o i discorsi prolissi).
Oggi, ad Altman, converrebbe piuttosto fare il contrario: prendere un romanzo lunghissimo e sbriciolarlo in tanti filmini da dieci minuti l’uno, vista la voga contemporanea dei «corti», che stanno ai film normali appunto come i racconti stanno ai romanzi. Almeno in apparenza, infatti, col tempo tutto o quasi tutto si è miniaturizzato. Già  a metà  degli anni Ottanta (quando nella musica pop i concept album e le suite più ambiziose erano già  rientrate nei ranghi della canzonetta da tre minuti massimo) i giornali cominciavano restyling che hanno resecato i rigaggi sino allo scheletro e inauguravano format oggi dominanti: la recensione in sette righe, il boxino con l’aforisma, il virgolettato buffo, il fototesto da cazzeggio, con tutta una relativa elocutioespositiva a base di pillole, schegge, briciole, lapilli, spilli, vespe. È l’interminabile, e oramai anche un po’ noiosa, variazione sul tema della «battuta», un format sempre graditissimo anche nelle pubblicità  e sulle Tshirt, o come tweet o post (e in ogni accezione del lessema «battuta»: dattilografica, musicale, umoristica o anche tennistica; e anche se forzata e penosa). In questo filone, oggi va molto la dizione «il graffio».
Ma guardiamo cosa, nel frattempo, si è invece allungato. Le trasmissioni tv, per esempio, che si protraggono sino a notte fonda per ragioni di convenienza produttiva e di maggior risalto di audience. Oppure i bestselleroni da villeggiatura primonovecentesca e da bagagli lasciati al facchino, sette-ottocento pagine di roba dentro alle loro belle copertine cartonate. L’equivalente fruitivo, nell’entertainment fiction, di long e soft drink con bicchierone, cannuccia e pezzi di frutta esotica e ombrellini penzolanti qui e là . Cose, insomma, che «vanno giù» molto bene, molto lisce. Volendo controprove, allora, ci si può appellare al caso di David Foster Wallace, al quale capita sempre più spesso di rifarsi perché a ogni discorso sembra avere dato un apporto decisivo. Dal punto di vista degli appezzamenti testuali (e dei relativi apprezzamenti), Wallace sembra quasi riproporre il caso Joyce: il romanzo maggiore sarà  anche un capolavoro ma è vastissimo e complicato, quindi lo si assaggia e per il resto si va sulla fiducia. (Lo si leggerà  da esodati, o da carcerati, chissà ). Della grandezza dell’autore testimoniano già  le short stories e per la mondanità  ci sono poi i riti dell’assoluzione collettiva e reciproca, come quando si ammicca: chi ha veramente letto Infinite Jest?
Gli stessi dell’Ulysses, probabilmente. Detto che quei (forse) pochi lettori hanno tutte le ragioni (letterarie) del mondo (ma gli happy fews sono abituati alle ironie dei tanti infelici pop-snob del demi-monde culturale) bisognerà  aggiungere che dal punto di vista del pubblico più largo, del marketing editoriale e della percezione generale non è affatto vero che breve sia improvvisamente divenuto sinonimo di buono. Quello che è successo è che lungo è diventato (e non improvvisamente) incompatibile con impegnativo.
Un prodotto industriale che richiede la nostra attenzione ha due modi diversi di essere «tosto »: o perché è molto lungo o perché è difficile, innovativo, non indulgente; ma le due cose restano mutuamente esclusive. Altrimenti è Infinite Jest, oppure le astruserie di Terrence Malick o di David Lynch o qualcosa ancor più di nicchia. Maghetti e vampiri, indagini scandinave, ammazzamenti americani, svenevolezze di ogni latitudine: lì invece la quantità  è ancora ricercata e gradita. Sono i libri-superficie, su cui il lettore passerà  come un pattinatore sul lago ghiacciato. Non deve sentire alcun attrito, ma non deve neppure aver alcun timore di finire in qualche buco assiderante e mortifero. Lungo libro, lunga malattia, si diceva ab antiquo: oggi la malattia va intesa nel senso della lettura febbrile, la passione del come va a finire, l’empatia che muove al riso e al pianto. La scrittura elenca funzionalmente dati, evoca scene, suggerisce una lettura emozionale che, paradossalmente, si adatta benissimo all’e-book, perché veramente lo schermo ha qualcosa che pare ostacolare qualsiasi tipo di lettura invece immersiva. La scrittura breve, sull’altro fronte, mette le sue virtù al servizio
della lettura lenta, soffermata, riflessiva, che preferisce tuttora la volumetria e la sensorialità  della carta. È la risorsa migliore per diffondere largamente idee, immagini complesse, soluzioni espressive innovative. Esplicitamente: per fare pensare. Se questo è vero, vuol dire che il mercato editoriale ha finalmente assorbito quella lezione che già , agli albori della cultura di massa, Thomas S. Eliot aveva rimodellato da Eraclito. Con queste rovine puntellerò i miei frammenti, la grande opera si dà  solo come caleidoscopio di riflessi e manciata di detriti. A scrivere breve hanno imparato filosofi e poeti, saggisti e addirittura accademici. E in questa operazione (che corrisponde al sensato tentativo di raggiungere un pubblico alfabetizzato ma non specialista né disposto al martirio) hanno incrociato e recuperato a ritroso intere tradizioni: la novellistica, l’aforistica, persino la bozzettistica, sfrondando i testi di orpelli, note, puntualizzazioni, impalcature. O, nel caso dei narratori, facendo meno del cabotaggio della vasta trama, con le sue virate e le rituali alternanze di tempeste e bonacce. In tutti i casi, mirando al puntuale, al circoscritto, su cui lavorare intensivamente: chi, prima, di scrittura; chi, poi, di lettura.


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