Davanti all’orrore a occhi chiusi

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Due vicende parallele, colte nel cruciale triennio intercorso tra la Notte dei cristalli (novembre 1938) e l’avvio della rovinosa campagna di Russia della Wehrmacht (giugno 1941). Thomas Heiselberg, un giovane pubblicitario tedesco consapevole dell’importanza delle ricerche di mercato (della necessità  di conoscere lo «spirito del popolo» al quale un’impresa commerciale intende rivolgersi) rimane senza lavoro dopo che la ditta americana presso la quale lavorava lascia la Germania. E ben presto si ritrova – lui impolitico, interessato soltanto al successo professionale e orgoglioso di non avere una «visione del mondo» – a mettere la propria creatività  al servizio del regime nazista impegnato nella «gestione della popolazione» della Polonia occupata. Stivali insanguinati Il suo Modello del tipo nazionale polacco, costruito sulla base delle esperienze maturate nel marketing , serve egregiamente a oliare gli ingranaggi delle deportazioni. Sostituiti i possibili acquirenti di una merce con le popolazioni sottomesse («quando dico “spirito” intendo razza, non stupidaggini psicologiche»), Thomas si vende come esperto di psicologia dei popoli e diviene un ascoltato consulente del ministero degli Esteri per tutto ciò che concerne arresti, condanne a morte, campi di lavoro e, naturalmente, la «questione ebraica». Comandanti militari e gerarchi preposti al governo dei territori invasi lo interrogano sulle «differenze tra l’ebreo tedesco e quello polacco, la posizione degli zingari nella società  polacca, la capacità  di lavoro della donna polacca eccetera». E lui, specialista nel «produrre documenti in qualsiasi ambito infarciti di formulazioni brillanti» («Ditemi di cosa avete bisogno e vi cucirò una disciplina su misura»), inventa espedienti e trucchi, come l’inganno della cooperazione con i Consigli ebraici, che consente ai tedeschi di svuotare «pacificamente» il ghetto di Lublino. Finché non cade in disgrazia, dopo aver tentato di passare proditoriamente alle dipendenze del ministero dell’Aviazione. Dopo aver scoperto sugli stivali insanguinati le tracce dei massacri perpetrati dai poliziotti tedeschi, Thomas decide di mollare tutto e torna in Germania, dove consuma i suoi giorni vagabondando senza bussola «come chi è solo e non ha nessuno», preda del rimorso per la propria vile complicità  (in fin dei conti si era sottratto all’abbraccio dei nazisti per orgoglio e nella certezza che «non gli avrebbero mica mozzato la testa»), tormentato dal ricordo delle atrocità  alle quali aveva assistito e dato man forte. Nello stesso periodo la vita di Aleksandra (Sasha) Weisberg subisce una metamorfosi altrettanto radicale. Nel ’38 (l’anno in cui, in Unione sovietica, «un uomo saggio non dice nulla a nessuno, fatta eccezione per il proprio nome e il luogo di lavoro») la sua famiglia incappa nelle maglie della repressione staliniana a seguito dell’arresto dell’amante del padre, una poetessa sospettata di dissidenza. Dopo la deportazione dei genitori, Sasha riallaccia un’antica vicenda amorosa che le apre le porte dell’Nkvd (la famigerata polizia segreta) e ben presto diviene maestra nell’estorcere confessioni («com’era facile giocare con le debolezze umane», «sgretolare l’immagine» che le persone si erano fatte di se stesse), nel manipolare i verbali («un accusato che redige una confessione è un po’ come uno scrittore, e ogni scrittore ha bisogno di un curatore»), nel rendere più efficienti le procedure d’incriminazione. Nella speranza di salvare i due fratelli minori relegati in un campo di lavoro o in un orfanotrofio (questa è almeno la motivazione che adduce a se stessa), Sasha determina l’arresto di migliaia di persone, a cominciare dall’intera cerchia degli amici paterni. Ma ne ottiene solo nuova sofferenza. I fratelli muoiono in guerra, lei vive con la consapevolezza di apparire un mostro che ha sterminato i propri genitori. E se anche ribadisce di non essere pentita («non avrei potuto fare altrimenti», «non provo pietà  per nessuno»), finisce tuttavia, come Heiselberg (che incontra per via dell’incarico di organizzare, alla vigilia dell’inizio dell’Operazione Barbarossa, un’inverosimile parata militare russo-tedesca in quel di Brest-Litovsk), col dover «svelare il proprio vero volto» riconoscendo che il movente delle sue scelte non era l’amore fraterno ma l’attaccamento alla vita. La dura verità  è che siamo «macchine per sopravvivere», talmente ansiose di salvarci la pelle da perdere ogni capacità  di «distinguere tra verità  e menzogna». Zelanti esecutori Questa, in sintesi, la complicata trama del voluminoso romanzo storico ( Brave persone , Ponte alle Grazie 2011, pp. 564, euro 22) che ha segnato il debutto di un giovane scrittore israeliano, Nir Baram, subito acclamato dalla critica e da lettori d’eccezione del calibro di Amos Oz e Abraham Yehoshua, che ha definito il libro nientemeno che «una pietra miliare nella nostra letteratura». Quale sia la tesi che Baram intende sostenere (ogni romanzo storico ne ha una) è a prima vista chiaro, e il titolo sembra aiutare a intuirla: non basta essere «brave persone» per rimanere immuni dal male, per non macchiarsi di colpe gravissime. I «totalitarismi» del Novecento (glissiamo qui sulla questione, data nel libro per risolta – anzi assunta come presupposto della narrazione -, della perfetta omologia tra stalinismo e nazismo) non si avvalsero soltanto di supporters fanatici, ma anche di persone normali. Il lavoro sporco della repressione e persino lo sterminio di ebrei e «zingari» non furono opera esclusiva di «volonterosi carnefici», ma anche (perlopiù) di «uomini comuni». Per questo Baram prende le distanze da Jonathan Littell, che nel suo Le benevole (Einaudi 2007) affida una compiaciuta rappresentazione degli orrori del nazismo alla voce di un ufficiale delle SS preda di perversioni sessuali. Per esplicita indicazione dell’autore, Brave persone vuol essere un libro sulla tanta «gente mediocre» che nel secolo scorso collaborò con sistemi politici oppressivi e di fatto permise loro di funzionare. Gente non mossa da particolari convinzioni ideologiche né, tanto meno, da un’ardente fede politica, e nondimeno zelante esecutrice di ordini criminali. Qualità  letterarie a parte (su questo terreno il romanzo non seduce: la vicenda appare costruita forzatamente in funzione della tesi teorica; i personaggi risultano alquanto rigidi e astratti, e il loro caos morale non ha la profondità  che richiederebbe, come mostra il confronto con altre due figure, ben altrimenti complesse, alle quali per molti versi la vicenda di Thomas e Sasha rinvia: il Mephisto di Klaus Mann, alter ego di Gustaf Grà¼ndgens, attore teatrale tragicamente compromesso col regime nazista, e il protagonista del sommo Vita e destino di Vassilij Grossman, il fisico ebreo Viktor Strum, vittima delle purghe staliniane e a sua volta coinvolto nella diabolica spirale delle delazioni), il libro di Baram ha dunque il merito di prendere sul serio un tema-chiave della ricerca storiografica e della riflessione morale sui cosiddetti regimi «totalitari» e in particolare sul nazismo: il ruolo svolto dagli uomini «senza qualità », privi di qualsiasi pur demoniaca grandezza, compreso per la prima volta da Hannah Arendt nelle sue celebri corrispondenze da Gerusalemme durante il processo ad Adolf Eichmann. Baram tiene a distinguere il proprio punto di vista anche da quello di Arendt, ma a questo riguardo le sue argomentazioni non convincono. Non è vero (e per scoprirlo basta leggere le pagine arendtiane raccolte da Jerome Kohn in Responsabilità  e giudizio , Einaudi 2004) che secondo Arendt Eichmann non scelse di lavorare per lo sterminio (questa – ripresa da Baram in un’intervista apparsa sulla Repubblica il 25 ottobre scorso – è l’interpretazione, assurda, di chi si scagliò contro di lei, accusandola di avere regalato ad Eichmann la più generosa delle attenuanti), mentre è vero che allo Eichmann di Arendt si attaglia perfettamente quanto Baram scrive in una pagina centrale del romanzo. L’«arte» in cui Sasha e Thomas mostrano di eccellere è la medesima in cui Eichmann fu provetto: «condannare a morte indirettamente, tramite un ordine, scrivere carte grazie alle quali una catena di eventi che sfuggono alla vista conducono alla morte degli altri». È alla luce di questa diagnosi che Baram può trarre la severa conclusione che, a dispetto di tutti i patteggiamenti e le contorsioni della coscienza, non vi è alcuno iato tra azioni e intenzioni, e che in fin dei conti «siamo esattamente come ci comportiamo». Ma proprio perché archetipo dei protagonisti del libro è l’Eichmann di Arendt, non si può dire che la narrazione metta a fuoco quella che lo stesso Baram riconosce come la questione centrale della storia dei «totalitarismi» e del nazismo in particolare. Il problema delle «brave persone» non riguarda i Mephisto-Heiselberg, gente che per capacità  o casualità  si trovò a occupare ruoli di rilievo (il Thomas di Baram arriva addirittura a rivendicare di avere «inventato» l’« operazione di evacuazione degli ebrei» da Lublino). Riguarda piuttosto la pletora delle «genti meccaniche»: la sconvolgente esperienza (magistralmente ricostruita da Christopher Browning in Uomini comuni , Einaudi 1999) di quanti sino al momento di indossare l’uniforme avevano fatto il barbiere o l’insegnante, l’idraulico o l’infermiere, e che, giunti al fronte, ingollato un bicchiere di acquavite, si dedicavano quotidianamente ai rastrellamenti dei villaggi polacchi e al massacro di massa degli ebrei. Il collasso della ragione Quello che si tratta ancora di capire – ammesso che sia possibile – è quanto avvenne nella mente (nella coscienza, nei pensieri, nelle passioni) di quanti – gente davvero normale – il 10 luglio 1941 portarono a compimento il massacro (ricostruito da Jan T. Gross ne I carnefici della porta accanto , Mondadori 2002) di tutti gli ebrei di Jedwabne, nella Polonia nord-orientale, con i quali avevano pacificamente vissuto sino al giorno prima. È il collasso della ragione (o, più probabilmente, la mutazione della razionalità : l’implosione della componente morale, l’estinzione dell’empatia e della solidarietà  e il conseguente dilagare della dimensione strumentale) al quale si assiste leggendo le conversazioni tra i prigionieri tedeschi (registrate a loro insaputa e adesso raccolte da Soenke Neitzel e Harald Welzer in un libro – Soldaten. Protokolle von Kà¤mpfen, Tà¶ten und Sterben , Fischer 2011 – che varrebbe la pena di tradurre in italiano): «brave persone», appunto, «uomini comuni», che si consolano nella detenzione ricordando con nostalgia le belle avventure sul fronte orientale («In Caucaso, se uccidevano uno di noi, il tenente non aveva bisogno di impartire ordini. Pistole pronte, donne, bambini, tutto quel che vedevamo, via!») o nei cieli sopra l’Inghilterra («Avevamo un cannone da 20 mm, volando bassi su Eastbourne abbiamo visto una festa in una villa, abbiamo sparato, ragazze in abito sexy e uomini eleganti schizzavano via nel sangue, amico mio che divertimento!»). Per non dire dell’altro grande dilemma – la questione del vasto e persistente consenso attivo, senza il quale il nazismo (ma lo stesso vale per il fascismo italiano) non sarebbe durato – su cui parte della migliore storiografia (David Bankier, Robert Gellately, Ian Kreshaw) si interroga con insistenza, mettendo in chiaro, al di là  di ogni ragionevole dubbio (si veda l’inchiesta di Eric A. Johnson e KarlHeinz Reuband, La Germania sapeva , Mondadori 2008), la consapevolezza che il grosso della popolazione aveva dei crimini compiuti dal regime, a cominciare dalla persecuzione dei dissidenti e dallo sterminio di malati, «asociali» ed ebrei. Un ossimoro perturbante Il problema aperto, che Baram sfiora ma non riesce a mettere in scena, è la normalità  dell’orrore , ossimoro perturbante che sfida ogni luogo comune sull’efficacia dei principi morali e sulla loro stessa funzione sociale. È il tema per il quale Primo Levi coniò da ultimo il controverso concetto di «zona grigia». Come osserva Anna Bravo ( Sulla zona grigia , in Intervista a Primo Levi, ex deportato , a cura di Anna Bravo e Federico Cereja, Einaudi 2011), ne I sommersi e i salvati Levi – che, pure, muoveva dalla consapevolezza che il Lager non era solo ad Auschwitz, ma dappertutto, che «nulla era vero al di fuori del Lager» – parlava dei rapporti di potere all’interno dei campi di sterminio. Ma in Germania e nei paesi contagiati dalla peste fascista una diversa e più vasta zona grigia (l’area ambigua della complicità  e dell’indifferenza; della disponibilità  all’assuefazione e dell’irresponsabilità ) copriva quasi tutto il corpo sociale. Solo prendendone atto e scoprendone le logiche immanenti capiremo, forse, quanto è accaduto nella prima metà  del Novecento. E riusciremo a misurare le atroci potenzialità  ancor oggi racchiuse nel ventre dell’Europa.


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