Uno spettro vivo e vegeto

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Ti definiresti femminista? In Full Frontal Feminism (Seal Press, 2007), Jessica Valenti, giovane femminista e blogger italo-americana, risponde alla domanda in modo provocatorio e un po’ sornione: «Il femminismo è qualcosa che definisci per te stessa», infatti «se sei femminista, la tua vita di tutti giorni è migliore. Prendi decisioni migliori. Fai sesso meglio». Un altro saggio del Valenti-pensiero: «C’è qualcosa di sbagliato nell’essere brutte, grasse o pelose? Naturalmente no. Ma siamo oneste: nessuno vuole essere associato con qualcosa che è considerato sfigato o non attraente. Fatto sta che le femministe sono donne davvero in gamba (e attraenti!)». Saccheggiando codici linguistici e riferimenti della cultura popolare, Valenti propone una nozione accattivante di femminismo, con il chiaro scopo di riattualizzarlo nella contemporaneità . Ma quanto di radicale e anti-patriarcale si trova in questo discorso “femminista”, che sembra voler creare modelli di soggettività  femminili autonome e agenti a partire da desideri che sembrano, in realtà , quelli propri dello sguardo maschile? In un’intervista di Luca Ragazzi e Gustav Hofer, parte del loro film Italy Love It or Leave It (2011), Lorella Zanardo sembra rispondere a questa domanda, quando dice che le donne oggi fanno più attenzione al fatto che le loro amiche siano grasse o magre, a quanto sia grande il loro sedere, perché il loro «è uno sguardo drogato, non è nemmeno lo sguardo dei maschi. È lo sguardo che i media ci rimandano: gli uomini, vi guardano così». 
Zanardo è fra gli ospiti del Convegno organizzato dal Gruppo di ricerca sulle politiche di genere a Bologna, presso la Scuola superiore di studi umanistici, dal 7 al 9 giugno. Tanto il suo punto di vista quanto quello di Valenti saranno oggetto di dibattito nel contesto di una discussione più ampia sullo stato del femminismo in Italia. Il convegno è per il Gruppo di ricerca sulla cultura e politiche di genere (CPG) un punto di partenza da cui aprire un dialogo fra studiosi italiani e stranieri sulle questioni di genere in Italia, ma anche per creare contatti fra il mondo accademico e la società  civile. 
Negli ultimi mesi, abbiamo avuto l’opportunità  di avviare un interessante confronto con alcune giovani donne, perlopiù studentesse. In relazione alla questione dell’identificazione su cui si interroga Valenti («ti definiresti femminista?»), ridendo, ci hanno risposto di no; hanno detto che il femminismo è superato e che le vecchie battaglie sono oggi improponibili. Con un pizzico di compiacimento, hanno parlato delle provocazioni delle loro madri, ex-ragazze degli anni ’70: bruciare il reggiseno in piazza, non curarsi del proprio aspetto, affermare il diritto al piacere sessuale, liberarsi della costrizione del rapporto di coppia, espellere gli uomini dai gruppi di autocoscienza, fare esperienza di movimento. Suggestive istantanee del passato, ricordi coloriti, molti racconti. Le giovani generazioni, sottolinea Angela McRobbie in The Aftermath of Feminism (Sage 2009), sembrano affidarsi a una codificazione depotenziata del femminismo, come se il movimento avesse esaurito le sue motivazioni e i suoi obiettivi fossero totalmente raggiunti, esperiti nel quotidiano. D’altra parte, la società  contemporanea proietta sul femminismo un’immagine «mostruosa», evocando una specie di «odioso spettro» che suscita sensazioni di «disgusto» e «repulsione». 
La contraddizione fra depotenziamento e spettralizzazione del femminismo si riflette nella tensione esistente fra i processi di liberalizzazione in atto nell’ambito delle scelte sessuali e dei ruoli di genere, e le politiche e culture neoconservatrici che si stanno imponendo su valori relativi a famiglia, sessualità  e identità  di genere. Questa tensione è presente a vari livelli, ed è particolarmente forte nei linguaggi dei media, i quali, per esempio, da una parte esaltano le espressioni del girl power, ma dall’altra impongono immagini dismorfiche del corpo femminile contribuendo all’epidemia dei disturbi alimentari fra adolescenti. O ancora, mentre moltiplicano le campagne contro abusi, stupri e violenze, stimolano un’ipersessualizzazione ossessiva del corpo. Come compensazione a queste tensioni, alle giovani donne vengono fornite tecnologie di genere modellate su offerte di libertà  e autonomia – ingannevoli o parziali – che investono i piani dell’istruzione, del lavoro, della sessualità  e della partecipazione al consumo. In altre parole, in risposta allo scenario di cambiamento radicale di valori, modelli e norme in atto nelle relazioni fra i generi, la cultura politica neoliberista e postfordista mette in gioco rinnovate forme di controllo, elaborando un «nuovo contratto sessuale» (McRobbie) che implica l’abbandono delle istanze femministe. 
Tali questioni si possono ritenere globali e transnazionali. Allo stesso tempo, come nota Justin Ashby nella sua analisi del contesto britannico (“Postfeminism in the British Frame”, Cinema Journal 2005), quella del «postfemminismo globalizzato» è una falsa impressione che nega la realtà  delle sue varie forme, che sono specifiche del quadro culturale e politico in cui sorgono, e che non possono essere analizzate attraverso una cornice analitica di «taglia unica». 
Il caso italiano dunque non può non essere analizzato nel contesto di quella che definiamo “l’età  di Berlusconi.” Che sia chiaro, “Berlusconi” non è qui da intendersi come individuo in carne ed ossa, ma come indice di parametri storici e culturali che si sono modificati in Italia a partire dagli anni ’80, in rapporto a fattori socio-economici e di egemonia politica. I recenti eventi concernenti le identità  di genere e il modo in cui queste si sono intersecate con la politica e la società  caratterizzate dall’egemonia culturale del “berlusconismo” (che includono, ma non si limitano a, la prostituzione minorile, le feste “bunga bunga”, le ospiti nelle ville del premier, i mandati politici assegnati a donne apparse nelle reti televisive del primo ministro) suscitano cogenti interrogativi sullo stato del genere e del femminismo nella cultura e nella società  italiana. 
La nostra indagine si svolge nel contesto di questi nuovi paradigmi culturali e si incentra su un quadro di posizioni teoriche e di pratiche in via di definizione: il “postfemminismo”. Il suffisso “post” indica un cambiamento nelle modalità  di rappresentazione e nelle relazioni che definiscono le istanze dei soggetti che, in questo nuovo paradigma, continuano a essere sottomessi al potere dominante. In generale, parlando di postfemminismo, ci riferiamo al fatto che il “femminismo” è oggi possibile e presente in Italia in forme e modalità  diverse rispetto al passato. Il prefisso “post” assume, in questo contesto, diversi significati sia storici che teorici. Storicamente, rispetto al femminismo esploso negli anni ’70, il femminismo si è riproposto di recente in Italia in forme apparentemente simili al passato, con le manifestazioni di piazza, in particolare con il gruppo “Se non ora quando,” ma i nuovi media, il web e i social network hanno costituito una fondamentale differenza per quanto riguarda i mezzi di comunicazione attraverso cui la società  civile si è organizzata. La questione fondamentale, è, quindi, in che modo queste forme nuove di comunicazione siano sintomo di o influenzino forme nuove di pensiero e pratica femminista. In questo contesto, “postfemminismo” indica, a nostro avviso, un complesso rapporto che si costituisce come trattativa, in cui l’esempio del passato è ora fonte di arricchimento e modello da imitare, ora fonte di contestazione e modello da superare. 
Il “post” implica dunque tre importanti aspetti su cui il nostro Gruppo di Ricerca, a partire dal convegno, vuole soffermarsi. Prima di tutto il rapporto fra il Movimento delle donne di ieri (anni ’70) e di oggi, e in particolare, il ruolo che i media vecchi e nuovi assumono come mezzi di comunicazione fra donne e di rappresentazione delle donne. In secondo luogo, manifestando in questo una forte continuità  con il Movimento delle donne in quanto la questione dell’omosessualità  era già  aperta nel femminismo degli anni ’70, il postfemminismo riconsidera le codificazioni di senso fornite da altre realtà , prime fra tutte, quelle postcoloniali e “queer” (e cioè devianti dalla normatività  eterosessuale) nei nuovi contesti di ricerca teorica e pratica politica. Toccando aree di studio e questioni d’interesse politico e sociale, come appunto quelle della cultura migrante e del multiculturalismo, dell’omosessualità  e dell’omofobia, il prefisso “post” non intende riferirsi al termine femminismo come superamento di teorie e pratiche passate. Piuttosto, intendiamo mettere in evidenza il rapporto fra femminismo e postmodernità , aprendo la domanda se il femminismo a livello ontologico non sia sempre stato postmoderno, de-centralizzante e de-costruttivo. Infine, e questo è il terzo aspetto su cui vorremmo soffermarci, il postfemminismo mette in luce la complessità  di entrambi i concetti di femminilità  e mascolinità  nella costituzione dei modelli di genere. 
Come si vede, sono molti gli interrogativi e le questioni aperte, e ad ampio raggio. Il primo passo sarà  eliminare lo stigma del “trattino” (post-trattino-femminismo) e le riflessioni post-mortem su femminismo e politiche di genere. Prendendo le distanze dai processi di mistificazione del femminismo “spettrale” e “mostruoso”, con il termine “post-femminismo” (con trattino) intendiamo far riferimento alla riattualizzazione delle istanze femministe nella contemporaneità , mentre facendo nostra la sfera del “postfemminismo” (senza trattino), rivendichiamo la necessità  di riflettere su soggetti e istituti dinamici, attraversati da tensioni vivacissime che ci invitano a misurarci con nuove strategie di controllo e subalternità .


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