Nicola Chiaromonte, lo «straniero in Italia» che affascinava Camus

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Ma Chiaromonte non è stato solo un intellettuale. Chi, negli anni Cinquanta, lo incontrava nella redazione del «Mondo», il settimanale diretto da Mario Pannunzio, non avrebbe mai sospettato che fosse stato uno dei piloti della squadriglia aerea guidata da André Malraux durante la guerra di Spagna, che proprio a lui e al suo coraggio si ispira nel tratteggiare uno dei protagonisti del romanzo La speranza (pubblicato in Italia da Mondadori).
Di questo suo passato di eroico combattente non parlava mai, per una sorta di pudore che gli veniva dalla terra di Lucania nella quale era nato il 12 luglio 1905. Era cresciuto a Roma, dove suo padre, medico, si era trasferito dalla Basilicata. A Roma, aveva collaborato al «Mondo» di Giovanni Amendola, a «Italia Letteraria», a «Solaria», aveva stretto un’amicizia destinata a durare sempre con Alberto Moravia. Legato a Giustizia e Libertà , nel 1935 si era rifugiato a Parigi per sfuggire all’arresto della polizia fascista.
Dopo Parigi, dove incontra Carlo Rosselli e conosce il socialista libertario Andrea Caffi che ebbe su di lui un grande ascendente, in seguito all’occupazione tedesca si rifugia in Algeria e in Marocco, per poi raggiungere New York. Frequenta la Mazzini Society, Salvemini e Sforza, entra a far parte di quel gruppo di scrittori e critici che fanno capo alle riviste di avanguardia «Partisan Review», «Politics» e «The New Republic» alle quali collabora con saggi su Tolstoj, Roger Martin du Gard, Stendhal, Pasternak, Camus, Sartre, raccolti nel 1971 nel libro Credere e non credere e stringe amicizia con il critico Paolo Milano e con Mary McCarthy. Lo storico Maurice Nadeau lo definisce uno degli ultimi «maestri segreti» di tutta una generazione di intellettuali europei e americani.
Nel 1947 ritorna a Parigi, dove stabilisce un legame fraterno con Albert Camus che aveva conosciuto in Algeria. Nel 1950 ritorna a Roma, e inizia a collaborare al «Mondo» come critico teatrale: articoli che sono il pretesto per riflessioni di carattere filosofico, storico e culturale e giudizi di costume sulla società  italiana. Fu proprio qui, nel 1951, che lo incontrai per la prima volta.
Dal 1956 al ’68 dirige insieme con Ignazio Silone la rivista «Tempo Presente», che svolge un ruolo importante durante la crisi ungherese e quella cecoslovacca; pubblica memorabili interventi sulla malafede degli intellettuali che avevano cercato la copertura del Partito comunista per far dimenticare di essere stati fascisti. Le sue considerazioni sul fallimento del marxismo, che a suo avviso conteneva un’insidia totalitaria, sono esemplari: «Quanto a me, tutto quello che posso dire, è di essere giunto alla conclusione che bisogna risolutamente gettare il marxismo alle ortiche se si vuole arrivare a un inizio di chiarezza», scrive. È «Tempo Presente» a far conoscere le prime testimonianze del dissenso sovietico con gli scritti di Sinjavskij e di Gustaw Herling, proibito in Polonia.
Fra di noi nacque un’amicizia: ci incontravamo spesso in via Sistina nella redazione di «Tempo Presente», alla quale collaboravo. Ricordo Silone e Chiaromonte nella stessa stanza, seduti alla scrivania, legati da una sorta di dialogo silenzioso, anche se, soprattutto negli ultimi tempi, i dissapori non mancavano. Ricordo i colloqui fra Pannunzio e Chiaromonte a proposito dei movimenti di contestazione del Sessantotto: entrambi avevano intuito la deriva terroristica che poteva nascerne. Ricordo le sue riflessioni sui grandi temi morali, estetici e ideali, piuttosto rare in un mondo intellettuale spesso frivolo e superficiale, che mi hanno fatto riflettere sulle ragioni della sua intensa amicizia con Camus: Nicola Chiaromonte è stato e ancora oggi è rimasto «straniero» in patria.


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