Salvare i circoli, non i convegni

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Nei momenti di grave crisi economica, come l’attuale, che esigono tagli della spesa e in particolare di quella pubblica, tutti siamo d’accordo nell’accettare e anzi nel reclamare tali misure di austerità, salvo protestare contro quelle che colpiscono istituzioni, iniziative che ci stanno a cuore e non solo, come in casi deplorevoli, per interesse personale bensì pure per le più nobili e giustificate ragioni, che tuttavia possono e devono tacere dinanzi alla necessità generale. Consapevole della contraddizione insita, in circostanze come le attuali, in ogni difesa di casi particolari – ognuno, in fondo, lo è – ma convinto tuttavia che si possano e si debbano fare delle scelte ancorché sempre difficili e spiacevoli, sento il dovere di segnalare un taglio che recide un piccolo ramo o meglio una piccola preziosa radice di quella civiltà umana, culturale e sociale che molte volte ha meritato all’Italia il nome, non sempre retorico, di Bel Paese. Mi riferisco al Circolo Culturale Il Menocchio di Montereale Valcellina, nel Friuli, cui la Regione ha recentemente ridotto di due terzi il già piccolo contributo che permetteva la sua creativa, inappariscente, solida, sobria e, nella sua misura, notevolissima attività. Diretto da Aldo Colonnello e Rosanna Paroni Bertoja ma frutto della libera, disinteressata e gratuita attività di parecchie persone, Il Menocchio ha svolto e svolge un’opera preziosissima di scoperta e valorizzazione di una cultura spesso appartata, ignorata ed economicamente povera, tuttavia ricca di fermenti radicati nella tradizione ma rivolti al nuovo, legati alla realtà immediata del territorio – del suo plurisecolare passato ma soprattutto del suo presente – ed aperti alla più ampia realtà nazionale ed europea, fiume che si arricchisce di questi piccoli affluenti i quali peraltro trovano la loro verità e la loro vitalità soltanto se sfociano in questa identità più grande, che contribuiscono a formare e che è e diviene pure la loro.
L’attività del Menocchio è prevalentemente, anche se non soltanto, letteraria; ha reso possibili la scoperta e la diffusione di voci antiche e moderne che rendono più viva la nostra Italia, la sua cultura e soprattutto la sua umanità. Ha portato alla luce e alla conoscenza un patrimonio culturale ora grande ora minore ma sempre autentico. Ma il lavoro del Menocchio si caratterizza soprattutto per il suo senso civile della Polis, della comunità umana, anche piccola, che s’inserisce nel mosaico di quella più grande di cui fa parte. L’intelligenza, il rigore, la libertà e la sobrietà delle scelte – autori, opere, realtà storiche e sociali – hanno uno stile e un valore che sembrano sempre più dimenticati e la cui scomparsa e decadenza contribuiscono alla crisi, umana, politica e anche economica, dell’Italia. È un senso del «buon lavoro» che dovrebbe animare le mani che coltivano la terra o fabbricano computer come quelle che scrivono poesie o portano alla luce elementi nascosti ma ancora operanti della nostra storia. Il Menocchio è una piccola versione italiana di quello spirito che Thomas Mann amava e ammirava nella borghesia anseatica dei suoi avi, i cui poeti avevano appreso dall’ethos del lavoro di quella borghesia – come il gruppo del Menocchio può averla appresa da quello delle generazioni contadine – la precisione, l’attenzione a quello che secondo Broch caratterizza pure l’artista. È un ethos che renderebbe l’Italia migliore, anche economicamente e socialmente, cosa più importante della poesia scritta. Perciò Il Menocchio va salvato. Ma – visto che i tagli sono inevitabili – non a spese di altre simili, altrettanto valide e riservate iniziative o di cinema e teatri, bensì piuttosto a spese di fenomeni eclatanti, più costosi e visibili ma forse sostanzialmente meno validi. Si potrebbero forse invece abolire molti convegni e congressi – il loro nome è legione – che non creano cultura ma, pur aiutando forse a diffonderla, anche la ostacolano, perché obbligano i partecipanti a ripetere e a riassumere cose che hanno già detto e scoperte che hanno già fatto, distogliendoli così da nuove opere e ricerche, impedendo loro di creare nuove fonti di ricchezza, culturale e dunque – direttamente o indirettamente – pure economica.
Quegli eventi non sono radici bensì bei rami frondosi; è forse meglio potare questi ultimi, anche se non fa piacere a nessuno, piuttosto che recidere le radici dell’albero.
Pure questa modesta proposta è oggettivamente tartufesca, perché festival, convegni ed eventi servono agli scrittori per la promozione dei loro libri, cosa di cui anch’io, come tanti altri, ho largamente approfittato, visto che se in un cinema tutti si alzano in piedi bisogna imitare questo esempio, se non si vuol perdere la visione dello spettacolo. Ma il fatto di essere tartufesca non esclude che questa modesta proposta possa essere utile.


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