“Acqua più cara e privata” il popolo del referendum scende di nuovo in piazza

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ROMA – Rischia di passare alla storia come il referendum tradito due volte. Tradito nei fatti, visto che niente si è mosso dopo che 27 milioni di italiani hanno votato “sì” il 12 e 13 giugno scorso alla ripubblicizzazione del servizio idrico integrato. Unica eccezione, la città  di Napoli. Mortificato, poi, dalla bozza del decreto sulle liberalizzazioni del governo Monti, che al momento, negando agli enti di diritto pubblico (le aziende speciali) di gestire acquedotti e rete, apre di nuovo ai privati il grande affare dell’acqua italiana. A sette mesi dal voto, le tariffe sono in aumento costante: +12,5% in media dal 2009. Gli ultimi ritocchi per la stagione in corso sono segnalati tra Vicenza e Padova (4%), a Modena (6%), nel Chietino (30 euro). I gestori sono sempre gli stessi. Gli investimenti sulla rete un terzo di quelli promessi: 600 milioni contro i due miliardi necessari per aggiustare reti colabrodo.
Ieri sera davanti a Montecitorio i comitati dell’acqua pubblica hanno organizzato un rumoroso sit-in per rispondere al sottosegretario all’Economia, Gianfranco Polillo, che aveva definito il referendum sull’acqua «un mezzo imbroglio». Ricevuti dal sottosegretario allo Sviluppo, Claudio De Vincenti, professore vicino al Pd che a giugno aiutò il comitato del “no”, ne hanno ricavato indicazioni incoraggianti. «Il sottosegretario ci ha fatto sapere che Monti non vuole passare come quello che ha affossato un referendum così popolare», urla al megafono Marco Bersani, leader del comitato per il “sì”. Le poche righe sul divieto alle “aziende speciali” potrebbero scivolare via domani in Consiglio dei ministri. Ci sono 24 ore di tempo per capire come fare senza tradire il grande impianto liberalizzatore del decreto.
Sulla carta il referendum era stato uno scacco matto alle spa in due mosse. Il primo quesito bloccava la corsa dei privati, lanciata dal governo Berlusconi. Il secondo toglieva la possibilità  ai gestori di fare soldi con l’acqua, abrogando la norma che consentiva di ottenere profitti garantiti sulla tariffa caricando sulla bolletta un minimo del 7% (remunerazione del capitale investito). Questa quota di guadagno oggi si è attestata attorno al 20%, con picchi al Nord del 25%. «È partita la nostra campagna di obbedienza civile al referendum», dice Giuseppe De Marzo, portavoce di “A Sud”, «invitiamo gli utenti ad autoridursi la bolletta del 7 per cento».
Senza profitto, il privato esce. Ma non è andata così. Solo nell’Ato (Ambito territoriale ottimale) di Napoli si è passati da una spa pubblica (Arin spa) a un ente di diritto pubblico (Abc Napoli), quindi senza l’obbligo di fare profitti. Nel resto d’Italia, negli Ato dove il servizio idrico è gestito da spa miste (12), da privati (6), dai tre multicolossi Acea, Iren e A2A (13), non è cambiato niente. Non solo. I sindaci non hanno avuto la forza né i fondi per eliminare dalle bollette la remunerazione del capitale investito. Nichi Vendola, governatore della Puglia, tra i primi sostenitori dell’acqua pubblica, ha provato a spiegarlo ai lettori del Manifesto: «I sindaci non possono autorizzare una riduzione, a questo corrisponderebbe la diminuzione degli investimenti su acqua, fogne, salute».
Federutility raggruppa le imprese idriche ed energetiche e spiega: «L’Italia ha le bollette dell’acqua più basse al mondo e questo produce un elevato consumo, ma non ci sono soldi per i depuratori». L’abrogazione del 7%, dicono, non si applica ai piani d’ambito in corso: se ne riparlerà  tra quindici anni. Sostiene Alberto Lucarelli, giurista e assessore ai Beni comuni di Napoli: «Non sono validi atti amministrativi e contratti basati su una legge che è stata abrogata». Abrogata dal referendum da 27 milioni.


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