“L’arte non è solo pensiero le opere bisogna farsele da soli”

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«L’arte è di chi la fa con le sue mani. Chi ricorre agli assistenti insulta la professionalità  degli artigiani». Con queste parole il più grande pittore inglese vivente, David Hockney, ha sferrato l’attacco al re della Young British Art Damien Hirst. Tutto, in realtà , è cominciato con il manifesto che pubblicizza la retrospettiva dell’artista 74enne, alla Royal Academy di Londra dal 21 gennaio. Sulla locandina, Hockney ha fatto scrivere: «Ogni opera esposta è stata realizzata personalmente dall’artista». Intervistato da Radio Times, poi, ha confermato di riferirsi polemicamente a Hirst, che non ha mai fatto mistero dello stuolo di collaboratori e tassidermisti, ingaggiati anche 100 per volta pur di portare a termine in fretta le opere con mucche e squali in formaldeide, i quadri di farfalle o gli spot painting di puntini colorati (solo 5 dei 1.400 esistenti sarebbero stati dipinti da lui).
L’anno scorso, il Daily Mail svelò che l’ex enfant prodige, oggi 46enne, era in cerca di un apprendista con «buone competenze di pittura e disegno, salario proposto: 20 mila sterline in tutto per 12 mesi». Uno stipendio troppo basso se a offrirlo è l’uomo da 215 milioni di sterline, che ne ha guadagnate 50 milioni solo per il teschio ricoperto di diamanti venduto nel 2007. Per ora Hirst, lontano dall’Inghilterra secondo il suo portavoce, non risponde alla polemica innescata da Hockney, che, va detto, oggi difende la manualità  ma è stato anche il primo a realizzare dipinti per iPad. Intanto, la battaglia tra i due si alimenta anche su Internet: la Saatchi Gallery, da cui Hirst divorziò nel 2003, riporta sulla pagina Facebook le frasi di Hockney e invita a schierarsi con l’uno o con l’altro. 
«Ma io riesco ad apprezzare entrambi», dice il critico Achille Bonito Oliva. «Si può sedare questo conflitto ricordando Leonardo, che diceva: “La pittura è cosa mentale”. Insomma, non è la manualità  che deve essere rivendicata, ma il valore espresso dall’immagine realizzata. Nonostante abbia teorizzato la Transavanguardia, che recuperò la pittura e la manualità  dopo anni di dominio della Pop Art, riconosco che possano convivere due mondi diversi: si può essere figli di Picasso o di Duchamp, che per primo utilizzò oggetti già  pronti, allontanandoli dal loro contesto. E per quanto riguarda i collaboratori che lavorano con gli artisti… la storia è lunga: parte dalla bottega medievale per arrivare a Botticelli e a Caravaggio». 
«Hockney ha tutte le ragioni per arrabbiarsi con Hirst visto che deve promuovere la sua mostra e si è dimenticato di sollevare questa polemica 50 anni fa con Warhol», ribatte secco Maurizio Cattelan, fino al 22 gennaio al Guggenheim di New York con la retrospettiva All, dove sono esposte le sue 130 opere realizzate con una squadra ristretta di assistenti fissi. A difendere Hirst c’è anche Michelangelo Pistoletto: «Il suo lavoro è molto lontano dal mio, eppure mi interessano alcune cose che ha fatto», spiega l’artista. «Rispetto la posizione di Hockney, ma penso che ormai l’arte possa toccare linguaggi e tecniche contemporanei: deve ritrovare le sue ragioni universali, proporre nuove prospettive come accadeva nel Rinascimento e per questo non può restare legata all’antico. Pensarsi solo come “artigiano dell’immagine” è limitante per un artista. Quando sento l’esigenza di creare direttamente con le mie stesse mani, lo faccio, eppure non rinnego mai la possibilità  di ricorrere ad altri mezzi». 
E se dietro la provocazione del pittore inglese ci fosse solo una strategia di comunicazione? «Hockney si rivela un comunicatore abilissimo, al tempo stesso “apocalittico” e “integrato”, ed è quindi più vicino a Hirst di quanto voglia ammettere – dice Massimiliano Gioni, direttore artistico della Fondazione Trussardi di Milano e curatore del New Museum of Contemporary Art di New York – . Se il problema è l’intensità  dell’opera d’arte, allora fa bene a strigliare un po’ Hirst, che produce più del necessario. Ma la tecnica non fa l’opera. Lo slow food dell’arte è un falso problema: il “fatto a mano” non garantisce la qualità , nel suo nome si tollerano mostruosità . È come quando al ristorante c’è scritto “tagliatelle fatte in casa”: bisogna sapere di quale casa si tratta. Jeff Koons, che non crea con le sue mani, utilizza gli assistenti come un suo prolungamento, come fossero veri e propri medium. Questa attenzione fa la differenza». 
Una differenza, quella tra Koons e Hirst, che è anche quantitativa: la produzione dell’artista americano è numericamente molto inferiore rispetto a quella del collega inglese. «Hirst, come altri Young British Artist, ha cavalcato le speculazioni nel mondo dell’arte, con una produzione smodata di oggetti immessi sul mercato – precisa Massimo Di Carlo, presidente dell’Associazione Nazionale Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea – . È stato il simbolo della new economy e già  ora le sue quotazioni non sono alte come prima. Il problema denunciato da Hockney, con il quale in linea di principio concordo, non riguarda gli assistenti, ma l’uso che se ne fa. Gli assistenti devono esserci, ma non possono essere trasformati in una catena di montaggio a cui delegare la produzione di una moltitudine di opere. Hirst è un artista intelligentissimo, con lo squalo in formaldeide ha colto la paura della morte che attanaglia l’uomo contemporaneo, ma non sarà  mai come Bacon e Picasso, che non perdono il loro valore economico anche in tempi di crisi». 
Si può essere dalla parte di Hockney o di Hirst, ma la “battaglia” rischia di fare pubblicità  a entrambi. Se è imminente la mostra del primo alla Royal Academy, il secondo entrerà  alla Tate Modern di Londra il 4 aprile con le sue opere. Fatte da lui o da altri poco importa per visitatori e collezionisti


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