Riots che parlano

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Ma una realtà  più complessa emerge dal lavoro di un gruppo di ricercatori della London School of Economics (Lse) e di cronisti del quotidiano The Guardian. Da mesi raccolgono le voci di coloro che hanno partecipato agli scontri. Il progetto si chiama Reading the Riots e finora ha prodotto un libro elettronico e diverse pagine del sito internet del Guardian. Questo esempio di giornalismo “di precisione” si ispira alla cooperazione tra lo psicologo Nathan Caplan e il giornalista Philip Meyer del Detroit Free Press in occasione dei disordini di Detroit del 1967. I sociologi della Lse hanno adottato un approccio qualitativo, in base al quale temi salienti emergono da conversazioni non strutturate, ma allo stesso tempo tutti gli intervistati hanno compilato un breve questionario. Più che testare una teoria già  chiara nella mente dei ricercatori, il progetto vuol far emergere le spiegazioni in maniera induttiva e “dal basso”. Fino ad oggi, sono state intervistate duecentosettanta persone di età  compresa dai tredici ai cinquantasette anni e raccolte un milione e trecentomila parole. 
Dallo studio del Guardian due temi emergono come “importanti” nello spiegare le motivazioni dei partecipanti: la rabbia verso i tutori dell’ordine pubblico, e un senso più generale di ingiustizia e di impotenza. L’85% degli intervistati spiega che il comportamento quotidiano degli agenti di Scotland Yard è un fattore «importante» o «molto importante» per spiegare la loro partecipazione agli eventi di agosto. Raccontano che nella loro vita sono stati malmenati, e in alcuni casi accusati ingiustamente, dagli agenti che pattugliano i quartieri. L’esperienza che più mina la fiducia nella polizia è la pratica dello stop and search («fermo e perquisizione»). Un ragazzo di 17 anni, che lavora a tempo pieno a Tottenham, racconta di essere stato perquisito la prima volta quando aveva appena tredici anni. «Mentre tornavo da scuola, due poliziotti hanno detto a voce alta: “Ehi, perché non gli chiediamo dove si trova Saddam (Hussein, ndr). Magari ci può dare una mano”. E queste sono le persone che dovrebbero far rispettare la legge. Io odio i poliziotti. Non sono contrario ad una istituzione che tuteli l’ordine pubblico, ma odio i poliziotti che pattugliano le nostre strade. Li odio dal più profondo del mio cuore». Il 73% degli intervistati sono stati perquisiti almeno una volta negli ultimi dodici mesi, un valore otto volte più alto rispetto alla media per la popolazione di Londra. Non stupisce dunque che solo il 7% dichiari che la polizia svolge un servizio «buono» o «eccellente» nella loro area, mentre il valore per la popolazione inglese è 56%. 
Molti indicano la morte di Mark Duggan, ucciso a sangue freddo dalla polizia a Tottenham il 4 agosto, come un’ulteriore causa scatenante della loro partecipazione ai disordini. «I poliziotti si comportano come una banda di criminali, né più né meno. Possono sparare quando gli pare e hanno ammazzato Mark Duggan». La diffidenza verso Scotland Yard attraversa le generazioni e fa parte dell’identità  di molti giovani. Dice uno studente venticinquenne di Tottenham: «Sono nato l’anno in cui hanno ucciso Cynthia Jarrett a Tottenham (1985) e ho sentito dire spesso in casa, “stai attento alla polizia”». 
Il secondo tema chiave è il senso di giustizia violata. Per alcuni è ingiustizia economica, come la mancanza di opportunità  di lavoro e l’ineguaglianza sociale, per altri un più generale sentimento di discriminazione; gli scontri sono stati un modo di esprimere la propria rabbia. Un giovane di Tottenham dice: «A tutt’oggi non credo che questo si possa definire un riot (tumulto). Penso che sia stato un atto di protesta». Aggiunge un ventiduenne: «Mentre i banchieri che ci hanno messo in questo casino continuano a ritirare i loro premi di produttività , noi non troviamo lavoro». I milioni di parole raccolte dal Guardian documentano una alienazione profonda, il venire meno di un legame ideale che dovrebbe fare sentire questi giovani parte di una comunità  nazionale. Non sorprende che quattro su cinque intervistati pensino che altri scontri saranno inevitabili. 
Quali sono i rimedi proposti dalle istituzioni? Punire i genitori, aumentare i poteri della polizia e comminare pene esemplari. Ad esempio, il governo ha subito incoraggiato le autorità  di quartiere a togliere la casa popolare a chi avesse un parente coinvolto nei riots, mettendo di fatto sulla strada intere famiglie. La polizia avrà  più poteri, come quello di usare cannoni lancia-acqua, i quali costano un milione e trecentomila sterline l’uno; e di utilizzare, come in Irlanda del Nord, i proiettili di plastica. Nel frattempo, i tribunali hanno lavorato giorno e notte per imporre pene molto più severe di quelle suggerite per i reati specifici dalle direttive della Commissione Giudiziaria per le Sentenze. Un’analisi condotta dal Guardian di mille casi di persone coinvolte negli scontri mostra come circa il 60% è stato condannato ad una pena detentiva, mentre la media per l’anno 2011 in tutto il paese è di 3.5%. Ad esempio, due ventenni del nord dell’Inghilterra sono stati condannati a quattro anni di prigione per aver mandato messaggi su Facebook a favore dei riots (uno ha aperto e chiuso una pagina internet nel giro di un giorno). Nessun incidente si è verificato a causa del loro gesto. Il messaggio è chiaro: chi ha partecipato agli scontri va in galera, anche se ha solo raccolto bottigliette d’acqua o pannolini lasciati sulla strada dai saccheggiatori.
Il governo di Sua Maestà  vuol farci credere che migliaia di giovani sono semplici criminali. La collaborazione tra Lse e Guardian offre invece una lettura alternativa e più profonda dei riots di agosto. Sarebbe una fortuna se diventasse un modello per altri paesi, per altri giornali. Questa collaborazione presuppone la volontà  di capire, di interrogare il mondo così come è, e di non accontentarsi delle versioni ufficiali. 
* professore di Crimonologia, Università  di Oxford
Il testo integrale di questo articolo verrà  pubblicato nel prossimo numero della rivista Lo Straniero


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