Scalfaro, dall'”Io non ci sto” alla difesa della Costituzione addio a un servitore dello Stato

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A cominciare dalla fine della sua lunga vita, imprevedibile come poche altre, colpisce con quanta naturalezza l’arcigno conservatore Oscar Luigi Scalfaro, allievo di Mario Scelba e nemico giurato del primo centrosinistra, si trovasse a suo agio al fianco di Umberto Eco, di Ingrao, di un ex di Pot-Op come Pancho Pardi, come pure a guidare il comitato elettorale di Veltroni, ma anche a presentare i libri di Mario Capanna e una volta lo si vide persino su un palco con il cantautore Alex Britti, loro due soli, e sotto una folla attenta, ma pure bella chiassosa di ragazzini e ragazzine.
Negli ultimi tempi l’ex presidente della Repubblica era ormai diventato una bandiera, anzi l’icona della Costituzione e perciò stesso vissuto da milioni di italiani come la più alta testimonianza di un antiberlusconismo integerrimo, pronto a scattare sul conflitto d’interessi, la guerra, le leggi ad personam, gli impicci sessuali; e adesso non è per esagerare il giorno in cui non c’è più, ma fra mille accuse al Cavaliere, pure accostato a Mussolini, nelle cronache si trova anche scritto che Scalfaro pregava «Domineddio» perché toccasse il cuore al suo nemico.
Aveva un inginocchiatoio in camera da letto, disadorna come quella di un monaco, e una radio a transistor. Teneva il rosario in tasca, un certo numero di santini nel portafoglio e una madonnina di plastica sulla scrivania, dono di Madre Teresa. Con periodica acrimonia si è sempre ironizzato su novene, processioni e ardenti accessi di devozione mariana. Ma nessun presidente, non solo dc, si è mai preoccupato più di Scalfaro nel tutelare le istituzioni dai moniti e dalle spinte ecclesiastiche e vaticane. Al massimo da Santa Romana Chiesa accettava «consigli», per quanto a volte rispediva pure quelli alla Cei o in Segreteria di Stato. 
Otto anni orsono gli regalarono una t-shirt con il simbolo dei Girotondi, e a vedere quell’indumento un po’ veniva da pensare al prendisole che nell’estate del 1950, anno giubilare, procurò a quel giovane deputato di Novara il suo primo, controverso sbocco di popolarità  per via di una sfuriata in trattoria ai danni di una donna con le spalle scoperte. Non ci fu mai, come invece spesso si ricorda, alcuno schiaffo, ma piuttosto uno spassoso dibattito parlamentare e poi, a tempo debito (1962), venne a Fellini l’ispirazione per un episodio di Boccaccio 70.
Pare di rivederlo, l’ultimo e il penultimo Scalfaro: accigliato o sorridente, le braccia lungo i fianchi, trotterellando, il distintivo dell’Azione cattolica all’occhiello, il nodo scappino alla cravatta, la sciarpa bianca, unica civetteria. Si presentava arrotando la erre in un saluto formale e antiquatissimo: «Buongiorno a tutti e a ciascheduno». Mai un’imprecazione, una parolaccia. Gelido e sintetico nell’ira, elaborava immagini offensive piuttosto articolate («crani pieni di aria»), e di scatto porgeva la mano a chi non sopportava per congedarlo. 
Era un perfetto conferenziere, specialista nell’apologetica, si ascoltava con qualche appagamento, ma riusciva a entrare in relazione con il pubblico più disparato rimanendo se stesso. Curioso impasto d’italiano per metà  piemontese e per l’altra metà  di sangue calabro. Aborriva gli inutili sfarzi, tanto da abolire i ricevimenti del 2 giugno nei giardini del Quirinale; detestava i piatti «complicati» tipo vol-au-vent, in compenso metteva un sacco di peperoncino dappertutto, ma durante il suo settennato a palazzo si mangiò poco e anche male. All’inizio del suo mandato faceva sequestrare i telefonini ai giornalisti che salivano al Colle e registrava i colloqui politici lasciando un vecchio microfono in bell’evidenza.
Aveva una concezione sacrale del proprio ruolo e dato anche il momento difficilissimo in cui venne eletto, nel maggio 1992, dopo un’aspra lotta parlamentare e la strage di Capaci, gli sarebbe piaciuto restare sopra le parti, ma non fu possibile. Nella mischia gliene dissero di tutti i colori, anche «sepolcro imbiancato. In realtà  era stato scelto perché lontano dal potere, non ricattabile, fuori dai giochi, ma pur sempre della Dc.
Deputato alla Costituente, dopo una carriera poco più che notabilare, era stato un buon ministro dell’Interno di Craxi e aveva presieduto senza riguardi per De Mita la commissione sull’Irpianiagate. Ma ciò che dette slancio alla sua tardiva ascesa fu la sua aperta e rocciosa ostilità , in nome della democrazia parlamentare alle picconate di Cossiga. Mentre veniva giù la Prima Repubblica, inaugurò con Amato e Ciampi i governi tecnici del Presidente, cioè anche suoi.
Rispetto a Berlusconi, del cui sorriso nutriva la più ostinata diffidenza di natura antropologica, senza farla troppo lunga si può dire che il Cavaliere commise l’imperdonabile errore di sottovalutare Scalfaro, ricevendone in cambio prima la regia effettuale del cosiddetto ribaltone e poi la più strenua resistenza a qualsiasi mutamento di regime costituzionale. Con ragionevole approssimazione si può pensare che quando Berlusconi cercò di farlo dimettere, era troppo tardi. O forse era un tipo d’uomo troppo duro e troppo convinto della tradizione politica che bene o male incarnava per farsi mettere in ginocchio dall’ultimo arrivato.
Per pochissimo, all’indomani della Liberazione, aveva fatto il magistrato: quanto bastò perché, sia pure fuori tempo massimo, i giornali della destra ricordassero alcune sue condanne a morte. Ma venne anche fuori che quel giovane pm aveva passato la notte a confortare il condannato, in preghiera. Tanti anni dopo alcuni spioni del Sisde cercarono di metterlo sul banco degli imputati per via di certi fondi neri usati quando era ministro dell’Interno. Lui riuscì a divincolarsi con il celebre tele-discorso del «Non ci sto». La faccenda fu poi archiviata, anche se Cossiga, che qualche sassolino trovava sempre il modo di toglierselo, fece in tempo ad alludere a quei misteriosi quattrini sostenendo che erano stati usati per ristrutturare conventi e aiutare suorine di clausura povere o malate.
Se infinite sono le vie del Signore, quelle dei governanti si limitano ad apparire enigmatiche nei loro inaspettati destini. «Ecco, io vi mando come pecore in mezzo ai lupi; siate dunque prudenti come i serpenti e semplici come le colombe». Ora, con tutte le riserve e un sovrappiù di maliziosa democristianeria, l’evangelico appello può adattarsi a questa storia di potere all’altezza del dramma di questo paese: abile navigatore di alti e bassi fondali, Scalfaro, duttile e intransigente, riservato e teatrale, soave e spietato. Ma protagonista sempre, anche nel dimostrare che tutto cambia, e se pure le vecchie divisioni resistono, i veri capi hanno la grazia di superarle.


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