Tagli alla cultura, leggi liberticide, censura. Ma la gente non ci sta. E in centomila protestano contro la svolta autoritaria del premier Orbà n

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«Freude, schoener Goetterfunken… Gioia, bella scintilla divina», cantano in centomila sul viale Andrassy tra l’Opera e piazza Oktogon, nel cuore di Budapest. È l’Ode alla gioia della Nona di Beethoven, l’inno europeo: il messaggio è chiaro, non lasciateci soli, la nostra libertà  è anche la vostra. Centomila in piazza contro la cerimonia ufficiale per la nuova Costituzione autoritaria e le leggi liberticide, e solo mille invitati al rito all’Opera, costretti a entrare da una porta laterale. Gli ungheresi si sono contati in piazza, e chiedono appoggio. Giovani indignati e famiglie coi bambini, pensionati e famigliole, socialisti, verdi, social network hanno vinto un match contro il potere. Budapest, gennaio 2012: il mite inverno sembra quasi alba di primavera come nella Mosca delle proteste, e il mondo libero è chiamato alla sfida. Aiutarli o ignorarli, princìpi o miope Realpolitik. Una stretta autoritaria dopo l’altra, e in economia strappi autarchici a raffica: il regime sta isolando il paese dall’Ue cui appartiene, economia e conti pubblici sono a un passo dal default. Ma molti non ci stanno più. Non basta la censura de facto: ignorata dai media ufficiali, la protesta di lunedì sera era breaking news sulla Bbc e gli altri media globali. Parte un trend nuovo, qui nel cuore della Mitteleuropa dove Orbà n le tenta tutte per rendere eterna la sua autocrazia, e cerca consenso denunciando «il mondo ostile alla nostra via». L’opposizione non è più solo partiti; gruppi indipendenti e iniziative sociali prendono la guida, mi spiega Karoly Voeroes, ex direttore del Népszabadsà g, il quotidiano liberal inviso al potere. Non ne possono più di vivere nella paura di perdere il posto se non piaci al capo o alla Fidesz (il partito di Orbà n) che ha in pugno tutto, né della bancarotta annunciata, né di vedere vita dignitosa e libertà  solo viaggiando a Berlino, Varsavia o Praga. «Organizziamo una tavola rotonda, uniamo le opposizioni, possiamo vincere», afferma Péter Konya. Guida un movimento dal nome simbolico, “Szolidarità s”, come Solidarnosc che in Polonia avviò la caduta del Muro e dell’Impero. Se sbarchi a Budapest del risveglio, le prime impressioni sono quasi esaltanti. La realtà  quotidiana fa paura. «Lanciamo un appello al paese e al mondo per la libertà  nel nostro paese», scrivono, rilanciati dal Financial Times, gli scrittori Gyorgy Konrà d e Miklòs Haraszti e altri famosi ex leader del dissenso sotto il comunismo. La nuova Costituzione abroga il concetto di Repubblica: il paese si chiama Ungheria e basta, Nazione come unità  etnica anche oltre confine e non comunità  di valori, il Partito socialista (ex comunista, oggi affiliato alla Spd, a Franà§ois Hollande, al New Labour o a Bersani) diventa responsabile dei crimini del vecchio regime.
«Non mi importa», ha detto Orbà n in risposta alle proteste di Hillary Clinton o di Barroso: la legge che contro i Trattati europei, ricordava il presidente della Commissione, toglie l’autonomia alla Magyar Nemzeti Bank, è in vigore. Cancellate la legge o niente aiuti, avverte la Ue. Ma i banchieri centrali magiari sono nel mirino dell’autocrate: vuole bruciare le riserve nazionali per colmare il mostruoso deficit pubblico e i conti in rosso dei municipi, controllati 8 su 10 dalla Fidesz. La censura colpisce duro: la neswroom unica dei media pubblici deve dare un 50 per cento di notizie da rotocalco, un 40 per cento i successi del regime, un 10 di conflitti nell’opposizione. «Klubrà dio trasmette troppo poca musica nazionale», ha decretato la temuta NMHH, l’autorità  che gestisce la legge-bavaglio. Via le frequenze da fine gennaio per il più importante media libero. «In redazione continuiamo a denti stretti e sporgiamo ricorsi», racconta calmo Ferenc Vicsek, direttore di Klubrà dio. «Ma ogni giorno vedo colleghi crollare, non reggono al pensiero di un domani a microfoni spenti. Il giorno dopo si fanno forza e ricominciano, “informare è la nostra vita”, mi dicono». La frequenza è passata ad «Autorà dio», società  legata alle mafie di regime, spiegano osservatori occidentali qui. A un’ora di volo, un’altra emittente si tiene pronta a rinascere. Grigi Boeing dell’Us Air Force senza contrassegni atterrano discreti a Monaco, con file elettronici, dossier, cd per trasmettere Rihanna o Lady Gaga. L’idea è dell’ambasciatore Palmer, che rappresentò gli Usa qui nel 1989, e di Charles Gati, grande penna della vecchia diaspora magiara: riaprire Radio Europa libera, ieri contro l’Impero del Male ma oggi contro Orbà n.
Il regime fa finta di nulla. Grida «all’odio antimagiaro di un’Europa fallita», il popolo gli crede. Si autocelebra, persino con un’orribile esposizione kitsch: una tela mostra la nuova Costituzione salutata in cielo dagli eroi del passato, un’altra evoca la guerriglia urbana scatenata nel 2006 della destra contro i socialisti al potere raffigurando un poliziotto a cavallo che come San Giorgio uccide non un drago ma una bionda vergine. I media pubblici censurano Hillary o Barroso, giudici indipendenti fanno le valigie pronti al prepensionamento forzato, così la magistratura sarà  normalizzata di qui a pochi mesi. Le università  dimezzate di numero non hanno più carta, la scuola dell’obbligo è solo fino a 15 anni, e una responsabile dell’Istruzione del partito al potere vuole il coprifuoco dalle 20 per i minorenni non accompagnati e cancellare l’obbligo dell’inglese nei licei.
Tagli alla cultura, teatri affidati a neonazisti. Miliardi per lo sport e gli stadi, soprattutto nella cittadina natale di Orbà n. Alle cerimonie ufficiali, il capo dello Stato Pà l Schmitt (ex sportivo, uomo del premier) dimentica di esibire la bandiera europea a fianco di quella nazionale. All’opinione pubblica, il potere dice che se va male, è colpa dei socialisti che governarono prima di noi e perché siamo soli contro la finanza internazionale. Concetto che evoca frasi antisemite di Goebbels, neanche tanto alla lontana. «Aiutateci a coprire il debito, o potremo rivalerci contro di voi per via legislativa», ha scritto il capogruppo parlamentare Fidesz, Jà nos Là zà r, alle principali banche austriache, le più esposte qui, con un tono quasi da minaccia allusiva mafiosa. I banchieri di Vienna, narrano con riserbo fonti vicine a loro, hanno reagito con riunioni segrete per prepararsi all’emergenza: come disinvestire e perdere il meno possibile se Budapest andrà  in default e il governo bloccherà  conti e risparmi. Chi può, tra i cittadini normali, già  prosciuga il conto a casa e deposita a Vienna o a Praga. Tra gli ex ambasciatori ungheresi, come ha spiegato Andras Simonyi già  a Washington, le valanghe di lettere di protesta ordinate dal regime ai media critici mondiali suscitano sconcerto e desolazione. 
Faccia feroce, ma nervi tesi: ecco il volto del potere, mi dice un rappresentante d’un paese vicino. Tra diplomatici, si mormora che quando le agenzie di rating hanno declassato il debito magiaro a livello spazzatura, Orbà n abbia avuto una crisi di nervi: «E allora via alla legge sulla Banca, e chiudiamo quella radio», pare abbia detto, poi si è chiuso in se stesso per giorni. Era disteso invece, l’altra sera, l’ambasciatore polacco Roman Kowalski, quando – invitato all’Opera dal regime, e chiesto d’un commento dai media di qui – ha detto a caldo «Mi piace la manifestazione di piazza, è normale che la gente abbia idee diverse». Ha dato un segnale europeo, ora gli ungheresi sperano che Merkel e Sarkozy non li lascino soli.


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