EDWARD WILSON, “PERCHà‰ L’UOMO HA BISOGNO DEGLI INSETTI”

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La storia della biologia riposa su alcuni pilastri, che sono gli organismi sui quali ci si è concentrati per studiare le foglie di quello che Darwin chiamò “l’albero della vita”. Lo scopo, ovviamente, è arrivare a comprenderne i rami, il tronco e le radici, e magari anche il seme che l’ha generato. Cioè, arrivare a risolvere il problema complementare a quello affrontato da Darwin stesso ne L’origine delle specie: non solo come la vita si sia evoluta e diversificata, fino a raggiungere la sua complessità  odierna, ma anche, addirittura, come sia nata. 
Molti scienziati si sono dedicati allo studio di un particolare organismo, e ne hanno spesso tratto fama e onori. Ad esempio, così è stato nei casi del batterio Escherichia coli, del verme Caenorhabditis elegans e della mosca Drosophila, che hanno portato al premio Nobel una ventina di studiosi. Salendo nella scala evolutiva, i fringuelli e i piccioni di Darwin appartengono ormai alla storia dell’evoluzionismo. 
Se ci si vuole avvicinare alla mirmecologia, come si chiama in linguaggio tecnico questo studio (dal greco myrmex, “formica”), è però forse meglio iniziare da Anthill, “Formicaio” (Elliot), che si presenta nel format più abbordabile del romanzo. Un romanzo strutturato in sei parti, come gli esapodi che Wilson ha studiato per tutta la vita. E che racconta la storia di un ragazzo molto simile a lui, precocemente appassionatosi alle formiche e al loro mondo. 
Uno dei motivi di interesse delle formiche, è che esse forniscono il più noto esempio di insetti altamente sociali. Al punto che si possono considerare come i veri organismi non le formiche individuali, ma i formicai collettivi. Questo aspetto è affrontato in dettaglio da Wilson e Hà¶lldobler nel loro ultimo superlibro, Il superorganismo (Adelphi). 
I superorganismi mirmecologici, però, sono soltanto una particolare organizzazione biologica sovraindividuale. Ce ne sono molti altri esempi, nel regno animale: ad esempio, tra i coralli, le api, le vespe, le termiti, i pesci, gli uccelli, i delfini, gli elefanti, i leoni, i lupi, le scimmie. E, ovviamente, l’uomo. Si arriva così, in maniera naturale, allo studio proposto da Wilson nel 1975, nel suo discusso libro Sociobiologia (Zanichelli, 1979). Un termine, questo, che intende indicare una “nuova sintesi” tra sociologia e biologia, che renda conto delle “basi biologiche del comportamento sociale”. 
La discussione sulla sociobiologia nasce dal fatto che essa tende a sottolineare ed enfatizzare le radici genetiche e i meccanismi selettivi del comportamento, e in generale i fattori naturali, a scapito e discredito di quelli culturali. Molti scienziati e umanisti hanno dunque reagito duramente alla nuova disciplina, accusandola di determinismo genetico e di legittimazione dello status quo sociopolitico. Questa lunga premessa serve a introdurre i tanti punti della mia conversazione con Wilson.
Quanto è stato importante lo studio delle formiche, nella biologia?
«Stranamente, non è cominciato seriamente che a metà  dell’Ottocento».
Come lo situerebbe nello spettro degli studi di altri organismi, quali il batterio Escherichia coli, le api di von Fisch e le oche di Lorenz?
«Allo stesso livello, o poco meno. Le formiche sono tra gli organismi più avanzati dal punto di vista dell’organizzazione sociale animale, e la realizzano nelle maniere più disparate. E sono anche gli insetti dominanti». 
A proposito di Lorenz, lei è stato influenzato dal suo lavoro?
«Profondamente. Soprattutto quando lo incontrai, e lo sentii parlare, nei primi anni ’50. Gli stimoli che lui chiamava releaser, “rilasci”, mi ispirarono a trovare i feromoni, che agli inizi chiamai appunto “rilasci chimici”. E anche a cercare di decodificare, insieme ad altri, il sistema di comunicazione delle formiche». 
Quando iniziò il suo interesse per le formiche, che lei chiamò nella sua autobiografia una “trance naturalistica”?
«A nove anni. Ma questo succede a molti bambini: la differenza con me, è che io non sono mai cresciuto». 
Quanto c’è di lei nel personaggio di Raff del suo romanzo Anthill?
«Un po’. Effettivamente, l’adolescenza di Raphael Cody è simile alla mia». 
Che somiglianze, e che differenze, ci sono fra i superorganismi delle formiche e le società  umane?
«Le somiglianze stanno nella complessità  della comunicazione, e nella divisione del lavoro. Le differenze, nell’individualità  e nel desiderio di riproduzione, che costituiscono tratti generali, se non addirittura universali, dell’umanità ». 
Più in generale, che cosa ci possono insegnare le formiche, sulla natura umana?
«Non molto. Le formiche sono quasi completamente guidate dall’istinto, e imparano pochissimi comportamenti. Gli uomini, invece, sono solo parzialmente guidati dall’istinto, e hanno una grandissima capacità  di apprendimento». 
Dunque non è da un parallelo con le formiche, che lei è arrivato alla sociobiologia?
«Vorrei chiarire una cosa. La sociobiologia, come l’ho concepita scientificamente nel 1971, è lo studio sistematico delle basi biologiche di tutte le forme di comportamento sociale negli animali, compresi quelli umani. E non è, come invece è stata spesso fraintesa nel passato, lo studio degli istinti degli esseri umani». 
Come risponderebbe, allora, alle critiche che sono state sollevate contro di essa?
«Che quelle critiche, appunto, erano focalizzate sulla seconda definizione, quella scorretta». 
Anche quelle di Lewontin e altri, ad esempio nel loro libro Il gene e la sua mente. Biologia, ideologia e natura umana?
«Lewontin credeva che il cervello umano fosse completamente immune da istinti, e che la biologia dovrebbe essere consistente con la teoria marxista. Ma è dagli anni ’70 che a queste cose non crede più nessuno, almeno fra i biologi». 
Tra le sue grandi preoccupazioni, ci sono la biodiversità  e la sua conservazione. Perché è così importante preservare il numero e la diversità  di tutte le specie?
«Perché il resto della vita, che è appunto il significato della parola “biodiversità “, è l’eredità  più preziosa e vulnerabile per l’uomo. E la sua sopravvivenza è essenziale per la nostra». 
Nel suo libro La creazione lei propone un’alleanza tra la scienza e la religione, per salvare la biodiversità . Ma com’è possibile allearsi, quando scienza e religione si combattono sul fronte della visione del mondo?
«Personalmente, credo che siano impossibili da riconciliare con la scienza le storie della creazione proposte dalla religione. Ma questo non impedisce che coloro che aderiscono, in teoria, a due antitetiche visioni del mondo, non possano poi cooperare, in pratica, per la conservazione della biodiversità ».


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