L’Eroina Modello

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Apri la bocca, compagno. Era piccola Mika: minuta e diritta, gli occhi di madreperla, il viso coperto di fango, era vestita da uomo e bellissima. Apri la bocca. Bisogna immaginarla così, la Capitana, con un cucchiaio in mano che imbocca i suoi soldati di sciroppo per la tosse fatto da lei, acquavite e miele, che per mirare bene non bisogna tossire. Uno dopo l’altro, in trincea. Apri la bocca. Ingoia e spara, compagno. Poi bisogna immaginare cosa deve essere costato agli uomini di quella colonna, nella metà  degli anni Trenta, avere una donna per comandante, loro che alle donne combattenti erano abituati a far lavare i calzini, a far pulire le baracche. «Tra i comunisti le donne si occupano solo delle faccende domestiche e dell’infermeria», la informa Hilario. «Dunque pensi che debba lavarti i calzini?» le risponde lei guardandolo diritto negli occhi, e senza aspettare replica: «Vediamo dunque, a chi tocca oggi il turno di pulizia?». 
In prima linea sul fronte sotto le bombe, sepolta viva sotto metri di terra, capace di organizzare una scuola dietro le trincee e di leggere Dumas e Salgari ai combattenti analfabeti poi di lanciarsi in combattimento sotto il fuoco delle mitragliatrici, amata fino alla follia, temuta come la più pericolosa delle rivoluzionare, incarcerata, ammirata da Borges e Cortà¡zar per i suoi scritti e per la sua ironia, rispettata dai bambini per l’amore e dai soldati per il coraggio. «È una donna cui si perdona il suo sesso nella misura in cui lei non se ne avvale», si giustifica uno di loro coi superiori che gli chiedono conto di quella bizzarria: una donna, ebrea, straniera per giunta, argentina, a capo di una milizia antifranchista durante la Guerra civile di Spagna. Austera e casta. Dura e dolcissima. Vecchia nel maggio francese, a strappare da terra i sampietrini coi guanti «perché se no le tue mani sporche, ragazza, ti denunceranno. Fidati di me e ora vai». Ragazzina a curare i denti dei campesinos in Patagonia, donna a Berlino nei giorni dell’incendio del Reichstag. 
Ma come abbiamo fatto a raccontarci le storie di un secolo senza conoscere Micaela Feldman Etchebehere, senza sapere di Mika? Senza dire di questa donna che lo ha attraversato per intero a volto scoperto e fronte alta, come un vento che solca i continenti, come un Che Guevara con l’abito lilla e gli stivali neri? Con quel sorriso, con la poesia della sua grande amica Alfonsina Storni nel cuore, con l’amore senza confini di Hipolito Etchebehere, compagno di vita e di politica, di figli mai nati e di trincea. Le loro lettere. «Tranquilla, Mikusha. Dammi il tuo affetto e insieme rifaremo il mondo». «Mandami il tuo amore, Hipolito, e ne avrò la forza». 
Vent’anni ha impiegato la scrittrice Elsa Osorio a ricostruire una biografia dimenticata dalla storia perché incomoda, impossibile da etichettare: anarchica, trockijsta, comunista, espulsa dal partito, accusata di tradimento, intellettuale, dentista, casta compagna di lotta e sensuale oggetto di desiderio, poi ancora maestra di coro in trincea, cantiamo, compagni, rispondiamo agli insulti dei fascisti con un coro parlato, imparate a memoria questi versi e cantiamo loro poesie. «Non eravamo destinati a resistere a lungo in nessun partito o organizzazione politica. L’osservanza di dogmi, la burocrazia, i tortuosi meandri del potere non facevano per noi», dice Mika di sé e di Hipolito, e questo spiega l’ottusa paura che gli apparati di partito prima e la storiografia poi hanno avuto ed hanno di una donna così: libera, in una parola. In due: davvero libera.
È un vertiginoso viaggio nel tempo questo che l’argentina Osorio (I vent’anni di Luz, Sette notti d’insonnia) compie all’inseguimento di Mika. Un romanzo biografico – in italiano La miliziana, ma perché cambiarlo? Il titolo originale è Mika – che attraversa e tiene un secolo intero, corre avanti e indietro negli anni, racconta un’immensa storia d’amore che si snoda fra l’ascesa di Franco e quella di Hitler, l’assassinio di Calvo Sotelo e la Seconda guerra mondiale, lo sterminio degli ebrei e i servizi segreti russi, il ’68 francese. Un racconto che tutto illumina e spiega perché è lei, così esile, che fa luce lungo la strada. Mika, donna lampione. Un documento preziosissimo fitto di date, nomi, appunti, figure. Buenos Aires, Parigi, Madrid, Berlino, l’avvento di Hitler: «La sinistra, spezzettata in un numero imprecisato di fazioni, con scontri ideologici e personali assai profondi, non poté esercitare la minima influenza sugli eventi», appunta con tristezza nel suo quaderno blu e quanta tristezza a guardarsi attorno ancora oggi. Poi Barcellona, di nuovo Parigi. Mika è nata nel 1902 ed è morta nel 1992. Viveva a Parigi, al 4 di Rue Saint-Sulpice, da ultimo, poco prima di andare in un sanatorio, sola. Argentina, è morta in Francia. Dora Maar, una francese cresciuta in Argentina, viveva in rue Saint Germain, a un passo da lì. 1907-1997, gli stessi anni. La portinaia della piazza le vedeva passare. Morta in sanatorio, anche Dora, dopo aver attraversato il secolo e le strade di André Breton, il comunismo, Picasso, lo stesso quartiere di Mika, gli stessi giorni, le stesse passioni. Le donne che illuminano il Novecento, luci nell’ombra. Fili invisibili che annodano la storia.
Di Mika, Capitana del Poum (Partido obrero de unificacià³n marxista) dice il comandante Antonio Guerrero: «Una donna di un coraggio e di una intelligenza ineguagliabili, dura e affettuosa, valorosa». Lei di se stessa: «In guerra qualcuno deve comandare e io l’ho fatto». Dopo la morte di Hipolito in battaglia, da quel momento e per sempre. Hipolito con cui parlava spagnolo in Spagna francese in Francia e tedesco in Germania «ma quanto è diverso l’amore quando si cambia la lingua», Hipolito che ogni tanto tornava al «suono di bronzo e di campana del castigliano, a cui il flauto francese ci aveva disabituati» e poi le scriveva, dal sanatorio in cui curava la tubercolosi, che «l’innamoramento dipende dall’istinto cieco ma la nostra lunga vicinanza, la gioia di camminare insieme nella vita dipende dalla volontà , dalla lungimiranza. Noi ci siamo guadagnati il diritto di amarci». E che bisogna vivere adesso, agire e vivere perché «il tempo che abbiamo non è infinito». Sepolta al cimitero Père-Lachaise con le poesie di Alfonsina Storni «che abbiamo tanto riso, da ragazze, dei giornalisti dei politici del dolore e di noi». Come quella volta in cui mettevano a posto il mondo e le loro vite, a vent’anni, al caffè Tortoni di Buenos Aires. Insieme. Prima di tutte le guerre e i dolori del mondo. Che il tempo che abbiamo non è infinito ma la storia che abbiamo scritto quella sì. Quella, quando c’è qualcuno che la racconta, non muore mai.


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