POLITICA E PASSIONE ADDIO A CAFAGNA

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LONDRA – Una lettera di Horace de Vere Cole, che andrà  all’asta, aggiunge particolari sulla beffa che il poeta e i suoi amici, tra cui Virginia Woolf, organizzarono a danno della Marina inglese. Il 7 febbraio 1910, il gruppo con barbe finte e costumi si spacciò per una delegazione abissina. «L’idea è stata mia!», scrive Cole nella lettera inedita riportata ieri dall’Observer con una foto (sopra, la Woolf è all’estrema sinistra). Solo pochi giorni fa aveva firmato un manifesto-appello insieme ai suoi amici di Libera Italia. E forse non è casuale che con un atto di militanza se ne sia andato Luciano Cafagna, figura di primo piano del riformismo socialista e studioso di non comune intelligenza, che alle ragioni della politica intrecciò le passioni di storico. Tra i primi a piangerne la scomparsa, il presidente Giorgio Napolitano, legato a Cafagna da amicizia personale e sodalizio intellettuale. 
Classe 1926, di origini avellinesi, la politica faceva parte del suo Dna. Fu nella grande cucina di casa Cafagna, a palazzo Doria, che nell’ottobre del 1956 un gruppetto di giovani dissidenti diede l’addio al Pci: quel documento sarebbe passato alla storia come il Manifesto dei 101. E fu sempre Cafagna, nel decennio successivo, tra i protagonisti del dibattito sull’industrializzazione italiana, sia con i suoi fondamentali saggi sullo sviluppo economico nell’Italia liberale e sul dualismo del nostro paese, sia con il suo impegno politico al fianco di Antonio Giolitti, ministro del Bilancio nel primo governo del centro-sinistra. Alla metà  degli anni Settanta lo troviamo tra i collaboratori di Mondoperaio, insieme a Norberto Bobbio, Giorgio Ruffolo e tanti intellettuali di spicco che avvertivano l’urgenza delle riforme istituzionali. Sensibile al fascino del primo Craxi, rimase legato all’amico fraterno Giuliano Amato, con cui avrebbe scritto nell’82 Duello a sinistra, dedicato al controverso rapporto tra i fratelli coltelli Psi-Pci.
Il passaggio tra la prima e la seconda Repubblica fu al centro di un suo brillante pamphlet, destinato ad accendere vivaci polemiche. Se per un verso La grande slavina demoliva la partitocrazia e le sue degenerazioni (“ultimo lascito del fascismo”), per un altro metteva in guardia dai suoi demolitori. E lumeggiava quello “stato sociale barocco”, prodotto da una rincorsa senza fine alla spesa pubblica e al lassismo fiscale, con cui oggi facciamo i conti. Un altro saggio controcorrente fu la sua monografia su Cavour, appassionato elogio della politica come “sottile arte della tessitura”. Tutto quello che s’è costruito in Italia – questa in sostanza la sua tesi – lo si è fatto con le armi, a volte geniali, a volte solo mediocri, della mediazione e del compromesso: Cavour ne è l’incarnazione più nobile. Un libro volutamente impopolare perché scritto in una stagione – sul finire degli anni Novanta – attraversata dalle robuste correnti dell’antipolitica e dell’impolitica. «Negando le ragioni della politica», disse Cafagna non senza preveggenza, «si finisce per mettersi nelle mani della cattiva politica: quella dei populisti, dei tribuni carismatici oppure dei neofiti cialtroni».
Tra ricerca storica e impegno civile è uno degli ultimi saggi in cui Cafagna riassume il senso della propria biografia intellettuale. Esaurito l’impegno accademico – professore di Storia contemporanea all’Università  di Pisa – fu membro dell’Autorità  garante della Concorrenza e del Mercato. Qualche giorno fa la firma sul manifesto-appello promosso da Massimo Teodori, titolo Per ricostruire la politica. Ancora una volta, e fino all’ultimo, la politica.


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