Ammortizzatori sociali ne bastano solo due

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Altri pezzi, almeno a leggere le dichiarazioni di ieri di Susanna Camusso ed Emma Marcegaglia, sono ancora oggetto di negoziato. Bisognerà  perciò aspettare fino alla prossima settimana per una qualsiasi valutazione di una riforma che si annuncia ambiziosa nel raggio d’azione se non ancora nella profondità  degli interventi.Ma c’è una domanda importante che è opportuno porre sin d’ora, prima che si concluda la trattativa anche perché al tavolo non siedono i contribuenti generici, chi non lavora oppure lavora in proprio oppure ancora non è coperto dall’azione dei sindacati e delle associazioni di categoria. Quanto costa la riforma degli ammortizzatori sociali? Saranno i nuovi strumenti introdotti dalla riforma interamente finanziati da lavoratori e imprese o graveranno sulla fiscalità  generale? La domanda è legittima in un momento in cui l’intero Paese è impegnato in una massiccia contrazione fiscale che porterà  la pressione fiscale al 47 per cento del prodotto interno lordo e il peso delle entrate sul pil a superare il 50 per cento.
L’obiettivo essenziale di una riforma degli ammortizzatori deve essere quello di costruire pilastri assicurativi che siano in grado di reggersi sui contributi degli assicurati, lavoratori e imprese. L’equilibrio finanziario di questi strumenti non deve necessariamente valere anno per anno, ma nell’ambito di un intero ciclo economico. Un buon sistema dovrebbe accumulare dei surplus durante i periodi di crescita, se necessario aumentando i contributi di lavoratori e imprese quando l’economia tira, e usare questi surplus per pagare i sussidi e ridurre i contributi di lavoratori e imprese durante le recessioni. Il tutto senza richiedere l’intervento della fiscalità  generale. Questa deve servire solo per finanziare l’assistenza sociale di base, quella riservata a chi ha esaurito il periodo di fruizione massima delle assicurazioni sociali, schemi ad orario ridotto e sussidi di disoccupazione, e altrimenti cadrebbe in condizione di povertà .
Il sospetto che la riforma possa richiedere risorse dalla fiscalità  generale viene dal fatto che la trattativa ha rischiato di naufragare proprio sul nodo risorse e che di colpo è tornata in carreggiata a seguito dell’ormai famosa clausola “paccata”. L’interrogativo vero e proprio, più informato, viene sollecitato dall’esame dei documenti disponibili sulla riforma degli ammortizzatori sociali, che sono molto più approfonditi di quelli sugli altri spezzoni della riforma. Il fatto è che la nuova Aspi, Assicurazione Sociale per l’Impiego, sarà  più generosa per un’ampia fetta di livelli retributivi (all’incirca fra i 1200 e i 2000 euro mensili) degli strumenti che assorbirà , vale a dire le indennità  di mobilità  e quelle di disoccupazione ordinaria. Per inciso sarebbe forse stato più opportuno essere più generosi nell’allargare la platea dei potenziali beneficiari (estesa dalla riforma ai soli apprendisti e artisti-dipendenti, meno di 300.000 persone in tutto) che nell’aumentare l’importo dei trattamenti. Queste indennità  più pesanti, in ogni caso, non sostituiranno altri ammortizzatori che oggi sono molto costosi per la collettività . Ad esempio non verrà  abolita la Cassa Integrazione Straordinaria, né di fatto la Cassa Integrazione in Deroga che è destinata a trasformarsi in un ampio numero di Fondi di Solidarietà , presumibilmente uno per settore produttivo. Né viene soppresso il sussidio di disoccupazione a requisiti ridotti e l’indennità  speciale per i lavoratori agricoli e nell’edilizia, che servono oggi per lo più a integrare i salari di chi già  lavora, piuttosto che ad aiutare chi ha perso il lavoro e ne sta cercando un altro. Vero è che la riforma si propone di dare questi sussidi solo a chi è disoccupato, ma non è chiaro come si raggiungerà  questo obiettivo tenendo in vita strumenti (e amministrazioni che li gestiscono) che sin qui hanno operato in modo molto diverso.
La riforma degli ammortizzatori sociali è molto importante per il nostro Paese. Serve a migliorare l’incontro fra domanda e offerta di lavoro, facendo aumentare la produttività  del lavoro, dunque il reddito medio degli italiani che da troppi anni è al palo. Serve anche a evitare che le crisi abbiano costi sociali altissimi, come avvenuto durante l’ultima recessione, in cui il reddito disponibile delle famiglie italiane è caduto al contrario di quanto avvenuto in paesi, come Spagna e Irlanda, che pure hanno vissuto contrazioni del reddito nazionale o dell’occupazione molto più severe che da noi. E’ perciò più che mai condividibile l’obiettivo di riformare gli ammortizzatori sociali. Ma bisogna farlo razionalizzando davvero la giungla di prestazioni oggi esistenti, che arrivano fino a specificare trattamenti ad hoc per gli addetti alla stampa delle pellicole cinematografiche. Occorre puntare ad avere solo due strumenti di assicurazione sociale – rispettivamente per chi lavora ad orario ridotto e per chi è disoccupato – a copertura universale, come avviene in tutti gli altri paesi dell’area Ocse. Bisogna anche garantire che questi strumenti siano in equilibrio finanziario, vale a dire che i contributi coprano i trasferimenti posti in essere dalla normativa che istituisce, assieme agli ammortizzatori sociali, diritti soggettivi a ricevere questi trattamenti. Per questi motivi i periodi di recessione non sono il momento migliore per avviare queste riforme. Si rischia, infatti, di far decollare nuovi strumenti che sono strutturalmente in passivo e che richiederanno, ben oltre la recessione, trasferimenti dalla fiscalità  generale. Siamo sicuri che nell’ambito della trattativa sono state svolte simulazioni dei costi dei nuovi strumenti e delle entrate contributive che verranno loro destinate. Sarebbe opportuno rendere edotti di queste stime tutti i contribuenti, dato che rischiano di doverci mettere altro, non preventivato, di tasca loro.


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