Cinquanta morti in dieci anni ecco l’inferno dei soldati italiani

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Cinquanta caduti. Cinquanta italiani, quasi tutti giovani, che hanno perso la vita nella sabbia di Shindand, nel fango di Bala Murghab, nella polvere di Kabul. Partecipare alla Forza Internazionale di Sicurezza e Assistenza vuol dire fare la guerra, anche se ribattezzata come missione di pace. Un conflitto asimmetrico, difficile e insidioso, dove il nemico si confonde con i civili e la potenza militare non serve. In Afghanistan gli equilibri delle guerre classiche, che guardavano al conto dei morti, non contano più. Ma le vite perdute lasciano sempre un vuoto. E i militari, al contrario dei politici, lo dicono senza ipocrisie: in guerra si muore.

Gli scontri Matteo e Alessandro uccisi nella guerriglia    


Sembra quasi un paradosso, ma nelle guerre asimmetriche gli scontri diretti sono molto rari. Le forze occidentali sono preponderanti dal punto di vista della potenza di fuoco, e insuperabili come tecnologia. In più, spesso sono le truppe dell’Esercito nazionale afgano ad affrontare il conflitto a fuoco sul terreno. Così contro l’Isaf i Taliban e gli altri insorti, trafficanti o banditi, adottano l’eterna tecnica della guerriglia. Un mordi-e-fuggi basato su bombe di mortaio, come quelle di sabato, e tiri di cecchini, come quello che ha ucciso Matteo Miotto nel dicembre 2010. Qualche volta capita che invece siano le forze speciali, come la Task Force 45, a imbattersi in un nido di Taliban durante un’operazione: è questo che è successo quando un contingente di questa unità  semi-segreta, impegnato a cercare i mandanti di un altro attentato, è finito in un covo di Taliban armatissimi, nel settembre 2010. Lo scontro è finito a favore delle truppe Isaf, ma nel frattempo l’incursore Alessandro Romani era rimasto ucciso.

I kamikaze I sei parà  della Folgore straziati dall’uomo-bomba    


Il terrorista suicida è considerato l’arma suprema, l’offensiva da cui non ci si può difendere, tanto più quando al volontario pronto al martirio si unisce l’elemento sorpresa. È stato un suicida parcheggiato a bordo strada con una Toyota carica di tritolo a straziare sei uomini della Folgore, nel settembre 2009, distruggendo un blindato “Lince” da sette tonnellate e scaraventandone lontano un secondo. Contro un attacco così organizzato, le tutele sono quasi inesistenti: la strategia di difesa si basa sul lavoro dell’intelligence, tutt’altro che facile in un paese con solidi legami tribali ed etnici. In altre occasioni, come nell’assalto a Kabul che costò la vita ad Antonio Colazzo, nel febbraio 2010, i kamikaze fanno parte di un commando che parte all’assalto dell’obiettivo e si fanno esplodere solo all’ultimo momento. È la tecnica “combinata” che i Taliban – soprattutto quelli della cosiddetta “rete Haqqani” – hanno mutuato da Al Qaeda. Per aumentarne ancora l’efficacia, molto spesso l’assalto del commando pronto al sacrificio è preceduto da un primo attacco con una o più auto-bomba.

Gli incidenti Quel mezzo blindato precipitato nel fiume    


In guerra si può morire anche dentro un mezzo che si rovescia durante il guado di un fiume: è successo nel febbraio scorso, quando tre militari del 66esimo reggimento sono annegati nel loro Lince travolto dall’acqua poco lontano da Shindand. Il peso enorme degli sportelli corazzati e la forza della corrente hanno reso vano l’estremo tentativo del mitragliere, che aveva già  raggiunto la riva ma si è ributtato in acqua per cercare di salvare i commilitoni, senza però riuscirci. E le condizioni dell’attività  militare rendono frequenti gli incidenti. Si può morire come Giovanni Bruno, in un mezzo uscito di strada, nell’ottobre 2004. O come Bruno Vianini, ucciso in un disastro aereo mentre volava da Herat a Kabul. Si può persino morire perché un soldato afgano perde la testa, o si rivela un infiltrato: è successo a Luca Sanna, nel gennaio 2011, a Bala Murghab. Ma la guerra può uccidere anche in maniera più sottile, minando gli equilibri interiori. Forse è questo che è successo a Kabul a Marco Callegaro. Nel luglio 2010, il capitano ha rivolto la sua arma contro di sé e si è tolto la vita. Ucciso anche lui dalla guerra.

Gli ordigni artigianali Mauro e Pierdavide dilaniati dai micidiali Ied    


le bombe artigianali o Ied sono un’arma micidiale, probabilmente quella che ha mietuto più vittime occidentali in tutto l’intervento in Afghanistan. Poco costose e facili da costruire, sono forse l’ostacolo principale per le attività  dell’Isaf. A volte sono parte di trappole complesse, come quella che ha ucciso i due artificieri Mauro Gigli e Pierdavide De Cillis a Herat nel luglio 2010: quella volta a un ordigno visibile ne era stato affiancato un altro, nascosto, che è esploso quando gli esperti hanno disinnescato il primo. Contro gli Improvised Explosive Device la difesa è affidata a protezioni passive: i jammer (apparecchi che disturbano le comunicazioni radio, così da impedire l’uso di telecomandi) e le blindature dei mezzi, che ovviamente hanno un limite. Il blindato Vtlm, che molti militari chiamano “San Lince”, offre livelli di protezione considerati eccellenti. Ma nessuna corazzatura protegge da bombe con centinaia di chili di esplosivo. Alla fine, le difese migliori restano l’esperienza e la sorveglianza continua, con l’uso dei droni ma soprattutto attraverso la collaborazione con la popolazione locale.

In Germania la soldatessa ferita. Gli Usa: “50 mila dollari alle famiglie delle vittime di Kandahar” Funerali di Stato per il sergente Silvestri    


HERAT – È partito ieri dalla base di Camp Arena l’Hercules C-130 che porterà  oggi a Ciampino la salma del sergente Michele Silvestri, ucciso sabato durante un attacco con colpi di mortaio alla base avanzata “Ice”, nella regione afgana del Gulistan. È stata invece trasferita all’ospedale militare americano di Ramstein, in Germania, Monica Graziana Contrafatto, caporal maggiore di Gela, che era rimasta ferita in modo grave dalle schegge del mortaio. La Contraffatto, 31 anni, volontaria di truppa in forza al primo Reggimento Bersaglieri di Cosenza, non sarebbe più in pericolo di vita. Silvestri sarà  onorato con funerali di Stato oggi pomeriggio alle 18 nella chiesa di Santa Maria degli Angeli a Roma, e domani con una cerimonia a Monte di Procida, in provincia di Napoli, dove risiedeva con la sua famiglia.
Intanto fa discutere negli Usa la decisione dei risarcire i familiari delle vittime del folle raptus del sergente Bales: «Gli americani hanno pagato 50.000 dollari per ogni afgano ucciso», ha rivelato domenica Agha Lalai, un membro del consiglio provinciale di Kandahar. «Dunque la vita di un afgano vale appena 50 mila dollari», dicono alcuni esponenti repubblicani attaccando Obama. E ieri nel distretto di Arghandab, provincia di Kandahar, una bomba artigianale ha ucciso dieci persone, fra cui un militare della Nato. Nella stessa provincia, la polizia afgana ha trovato un deposito con 17 tonnellate di esplosivo.
 


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nel periodo 2004–2013, sono 316.545 le per­sone morte da arma da fuoco sul suolo ame­ri­cano

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