Didion: racconto il buio per riuscire a sopravvivere

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NEW YORK — Dopo il successo de L’anno del pensiero magico, Joan Didion torna a fare i conti con la morte in Blue Nights (pubblicato da Il Saggiatore, pagine 206, 15) incentrato sul suo rapporto con la figlia Quintana Roo Dunne, — scomparsa nel 2005, a soli trentanove anni, — sulle sue ansietà  e rimorsi di madre adottiva troppo assorbita dal lavoro di sceneggiatrice hollywoodiana, e soprattutto sulla paura delle malattie e della vecchiaia.

Il libro, «Bestseller 2011» per il «New York Times», è stato acclamato come un capolavoro dai critici americani («riconferma la Didion come la più grande saggista americana contemporanea», esulta la «New York Review of Books») lasciando però freddi quelli inglesi che l’accusano di essere «vago e senza sostanza» («Telegraph»), «esibizionista» («Guardian») e «frustrante» («Independent»).
«Anche un mio amico italiano sta avendo difficoltà  a leggerlo», esordisce l’esile e fragilissima scrittrice, che apre la porta del suo appartamento tutto luce e arredi bianchi nell’Upper East Side in pantofole, senza stringere la mano. «In Blue Nights non si percepisce mai quel senso di catarsi che ti porta a dire tutto finirà  bene».
Il mantra de «L’anno del pensiero magico», «la vita cambia in fretta, la vita cambia in un istante», nel nuovo libro diventa «quando parliamo di mortalità , parliamo dei nostri figli».
«È stato molto difficile scrivere Blue Nights perché non c’è nulla di peggio per una madre che vedere spegnersi un figlio. Quando morì mio marito John, il tempo e la rielaborazione del dolore attraverso lo splendido allestimento de L’anno del pensiero magico nell’one woman show di Vanessa Redgrave a Broadway mi aiutarono a superare il trauma e andare avanti. Ma dalla scomparsa di un figlio è impossibile riprendersi».
Perché quel titolo?
«Viene dal crepuscolo, che nei Paesi del nord si attarda all’inizio dell’estate, creando l’impressione che le tenebre potrebbero non calare mai. Il libro affronta il tema della morte in senso lato. Non solo quella di John e Quintana ma anche di Natasha Richardson, figlia della mia carissima amica Vanessa e di tanti altri amici del mio passato a Hollywood».
Lei suggerisce che Quintana aveva sin da piccola un forte istinto di morte che si manifestava quando la pregava di lasciarla «andare a dormire nella terra».
«Quando la osservavo, non vedevo altro che una ragazzina solare e meravigliosa. In realtà , aveva un animo tormentato che io non sono riuscita a comprendere. Mi è stato detto che forse aveva ereditato la sua inquietudine interiore dai genitori biologici. Era terrorizzata dall’idea che suo padre John potesse morire, lasciandola sola a prendersi cura di me, una madre troppo fragile e assente. Nel garage della nostra casa di Malibu aveva appeso «i motti preferiti di mia madre», tra cui «’sciò: sto lavorando».
Non pensa che forse sarebbe stato meglio non rivelare a sua figlia la verità  sull’adozione?
«All’inizio non volevo dirle nulla per paura di perderla. È stato John a convincermi. Secondo lui, prima o poi avrebbe scoperto la verità  e non ci avrebbe mai perdonati per averle mentito. Quintana non voleva mettersi in contatto con la sua vera famiglia. Sono stati loro a cercarla, a trentadue anni, con un Fedex recapitato di sabato. Ciò ha acuito i suoi turbamenti interiori. Essere abbandonata e rifiutata la terrorizzava da sempre. Quando tornavo a casa per il weekend, dopo una settimana di impegni fuori città , era così arrabbiata che non voleva baciarmi».
L’amore di un genitore adottivo è diverso?
«Sin dal giorno in cui l’ho presa in braccio in ospedale, ho sentito che era mia. Avevo bisogno di lei perché volevo disperatamente occuparmi di qualcuno. Persino la mamma di John mi confessò che, quando ci vide scendere dall’aereo, capì subito che la bimba era parte della nostra famiglia. Lei era la nostra bambola e per il battesimo le comprammo ben sessantasei vestitini».
Se potesse tornare indietro sarebbe una madre diversa?
«Dal momento in cui Quintana è entrata nella mia vita, ho vissuto con il timore che qualcosa di terribile le sarebbe potuto accadere. Sono certa che se lei fosse ancora viva, quell’impulso sarebbe ancora più forte. I genitori americani sono i più apprensivi».
Anche i suoi lo erano?
«Sono cresciuta durante la Seconda guerra mondiale e per il lavoro di papà  ci spostavamo in continuazione. Io vedevo mio padre soltanto a cena mentre i papà  d’oggi sono molto più presenti nelle vite dei loro figli. Più tardi, come coppia nella vita e nel lavoro, io e John vivevamo in simbiosi: una situazione non facile per Quintana che si sentiva spettatrice del nostro piccolo mondo chiuso».
La percezione di sentirsi invisibile tra la gente è un sentimento che nel libro la perseguita.
«Nel mio caso è un’emozione molto forte. Credo sia legata alla mia inquietudine interiore. Tutto è iniziato alcuni anni fa, quando caddi a terra finendo in ospedale. Non mi era mai successo prima e da allora ho il timore che possa succedere di nuovo».
Come mai ha dedicato un capitolo ironico allo «scandalo Loren-Ponti»?
«Anche se non ci siamo mai incontrate, per me Sofia Loren è il ritratto della seduzione. Ho pensato a lei per il libro dopo aver visto alcune sue foto pubblicate sulla «New York Review of Books». Quanto all’ironia, è un aspetto fondamentale della mia vita. Non è un caso che, per il memoir scritto nel 2003 sulla mia famiglia, ho scelto come titolo Where I Was From («Da dove venivo») invece di Where I Am From, («Da dove vengo»), suscitando la reazione dei miei amici che scrissero per ricordarmi la mia origine californiana».
Scrivere per lei è una necessità  come l’aria che respira?
«Sì, ma non è mai stato facile come qualcuno forse pensa. Per farlo ho dovuto impiegare molta disciplina e costanza. Le parole non scorrono mai fluide e i miei libri vedono la luce solo dopo moltissimi tentativi. Quando si è giovani l’ispirazione è fresca ma oggi non sono più capace di pensare come facevo anni fa. Con l’avanzare dell’età , i pensieri lasciano la mia testa per non tornarci».
Cos’avrebbe voluto diventare se non avesse fatto la scrittrice?
«Un’oceanografa. Ho amato i film di Jacques Cousteau e, quando a venticinque anni lavoravo per «Vogue», andai in California all’Ocean Institute per informarmi su come seguire le sue orme. Il mio sogno s’infranse quando mi dissero che avrei dovuto sostenere degli esami di scienza, che non era parte del mio curriculum al liceo. Così ho finito per iscrivermi a letteratura inglese a Berkeley. Il resto è storia».


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