I volontari della conoscenza

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C’è stato un tempo, quello nel quale si è formata e consumata la mia generazione, durante il quale la condizione del lavoro culturale si giocava sul discrimine tra cultura alta e cultura bassa, cultura di classe e cultura proletaria. Questo tempo è passato – per fortuna forse – ma nel mio modo di pensare di esso è rimasto un residuo da cui non intendo – o forse non posso – sbarazzarmi. Di che si tratta? Della convinzione che la cultura è conflitto sociale, se proprio non ci piace il termine conflitto, è pur sempre prodotto di un qualcosa che nella società  si muove, cambia, si trasforma. Nel bene o nel male. Non può esserci cultura dove la storia si è fermata, dove tutto tace. Può essere esplicitato o meno questo rapporto, può esserci cultura che nasce da un piccolo tornante della storia e lo ignora, ma consapevolmente. Cultura senza interlocutori, avversari, referenti, non esiste. Cultura autoreferenziale non è cultura.
Ma questo tipo di cultura, che è il prodotto di una trasformazione sociale, nasce sempre dal volontariato. È un grosso scoglio, questo, perché è difficile affrontare la condizione economica del lavoro culturale oggi senza riflettere sul senso del nostro volontariato. 
Nel lavoro intellettuale non c’è mai l’alienazione totale, quella che dava all’operaio massa il senso di estraneità  assoluta verso il suo prodotto e gli apriva il cervello, lo predisponeva al conflitto, una volta superata la paura e calcolato i rischi. Il lavoro intellettuale non riesce a raggiungere il distacco completo dal suo prodotto, quell’alienazione totale che permette di capire come funziona il mondo. Nel prodotto ci mette una parte, sia pure piccola, di se stesso, pertanto gli riesce difficile odiarlo, guardarlo con occhio estraneo. Parlo del prodotto, non del mestiere. L’orgoglio di mestiere è altra cosa.
La trappola del mercato
Il lavoratore intellettuale, anche se assunto a tempo indeterminato, raramente riesce a costruire un fronte di lotta collettivo, è più probabile che negozi da solo la sua posizione. Il precariato oggi ha reso la negoziazione individuale un fenomeno strutturale. Pertanto riuscire a costruire battaglie collettive è un grande compito, assai difficile. C’è da chiedersi però se partire dal prodotto, dalla prestazione, sia la strada più percorribile. Io penso che le due condizioni, quella del volontariato e quella dell’insufficiente estraneazione, sono dei lacci che legano le mani al lavoro intellettuale nel concepire il conflitto inteso come premessa di un negoziato con la controparte. Perciò proverei ad arrivarci per un’altra strada.
Il volontariato che produce cultura come attività  extramercato è il vero lavoro di conoscenza, mentre la prestazione conto terzi è cessione di competenza. Proviamo a scindere conoscenza e competenza, un’operazione arbitraria, però proviamo a farlo per chiarire meglio questo passaggio. Ho difficoltà  a immaginare un lavoro di conoscenza retribuito o meglio, retribuito per il suo valore. Perciò mi riesce difficile toglierlo dalla sfera del volontariato. 
Il lavoro intellettuale retribuito è cessione a titolo oneroso di competenze, non è lavoro di conoscenza, tant’è vero che dopo avere fornito servizi competenti non ci sentiamo per niente arricchiti del nostro bagaglio di conoscenze. Abbiamo arricchito il nostro savoir faire, è una cosa diversa, ci siamo meglio attrezzati per erogare lo stesso servizio con minore sforzo, così come l’operaio dopo avere ripetuto lo stesso movimento per cento volte impara a farlo in modo da strappare del tempo per una sigaretta a parità  di output. 
Libere invenzioni
Questa situazione che è tipica dello skill non rientra nella sfera del lavoro di conoscenza che per sua natura è un lavoro extramercato, svincolato da un prodotto specifico o anche dal «produrre», è molto più legato all’«inventare», all’«innovare», a rompere gli schemi, a «liberare» e a liberarci. Conoscenza e libertà  sono due termini inscindibili, che si possono esprimere anche con una sola espressione “libertà  di pensiero”, qualcosa che rimanda all’infinito.
Lo skill invece è sempre circoscritto a qualcosa di finito e quasi di cogente com’è caratteristico di tutte le attività  di prestazione conto terzi, ha libertà  limitata, è strumentale a un rapporto di dipendenza. Inoltre, la sfera della conoscenza non è mai «specialistica», mentre la competenza deve esserlo. La conoscenza quindi è innervata nella trasformazione sociale ed è per sua natura incompatibile con una mercificazione, non rientra nel classico ciclo marxiano denaro-merce-denaro, è un prodotto del volontariato. Parlare di «lavoro di conoscenza» pertanto non è del tutto corretto, il termine «lavoro» dovrebbe sempre essere associato all’idea del lavoro come merce scambiabile con denaro.
Qualcuno potrebbe obiettare a questo punto che c’è una palese contraddizione tra la definizione del lavoro di conoscenza volontario che si misura con l’infinito e il lavoro di conoscenza che produce merci. Certo che c’è contraddizione, ma è la stessa insita nel lavoro in quanto tale, nel concetto stesso di lavoro, di cui Marx dice che è doppelseitig, ambivalente, portatore di libertà  e del suo contrario, dipendenza. In ogni scelta che noi facciamo è insito un risultato e il suo rovescio. Quella che nasce come impresa sociale può diventare strumento di mera accumulazione, la storia del movimento cooperativo lo dimostra. I rivoluzionari possono diventare i peggiori dittatori. 
O accettiamo che questa ambiguità , questa ambivalenza, sia intrinseca ad ogni lavoro di conoscenza e ad ogni lavoro culturale, oppure ci trasformiamo in adoratori di una Città  del Sole che non verrà  mai. Ma questo «realismo» non ci impedisce di affermare che il lavoro di conoscenza al quale noi ci sentiamo chiamati, per nostra vocazione, per nostra scelta, è il lavoro che produce valori universali, trasformazione sociale e sensazione di libertà  in chi lo esercita. Dunque volontariato.
Format accademici
Creazione di competenze allora, qui entra subito in gioco il discorso sull’università . L’università  fornisce competenze non conoscenza. L’ordinamento universitario, essendo sempre più specialistico e compartimentato, non contribuisce a creare conoscenza né cultura come trasformazione sociale. Quindici anni fa, quando abbiamo iniziato a sistematizzare il discorso sul lavoro autonomo, abbiamo avuto necessità  di creare una «Libera Università », recuperando il significato originario del termine universitas, comunità  di persone animate dagli stessi interessi. L’innovazione di pensiero oggi deve liberarsi della macchina universitaria. Oggi è impossibile avere libertà  di pensiero nel format della produzione accademica. Dall’economia alla sociologia, alla filosofia, alla letteratura, nelle scienze umane in generale, il format del prodotto accademico è concepito con lo scopo di legittimare la macchina esistente, è un meccanismo autoreferenziale.
Comincio a dubitare che questa macchina sia ancora in grado di fornire competenze. Sicuramente non è in grado di fornire le competenze richieste dal mercato. Non è un problema da poco e poi: come si fa a stabilire se è inadeguata la domanda o l’offerta? Dovremmo dire che è un rapporto di forza, a comandare è la domanda. (…) Non è la sede per fare un’analisi della situazione italiana del mercato del lavoro. Però due numeri, due, potrebbero aiutarci a chiarire meglio il nostro discorso. Sintetizzando al massimo diciamo che il mercato del lavoro si suddivide in due macrosegmenti: il mercato della Pubblica Amministrazione, dell’impiego pubblico o dell’impiego creato da risorse pubbliche, e il mercato dell’impresa (pubblica o privata non fa problema). Nel primo caso il capitale è dato da trasferimenti, nel secondo da profitti.
Il primo è controllato direttamente o indirettamente dalla politica. (…) Basta pensare proprio al settore della cultura. Questa situazione produce come effetto la caduta di valore delle competenze, sostituite da altri criteri di scelta del candidato. Come fare per rimediare a questa situazione? Singolarmente si ottiene ben poco, occorre per forza porsi come forza collettiva nel negoziato, occorre costituirsi come soggetto pubblico, come lobby. 
Ma prima ancora occorre rendere possibile il negoziato costringendo la Pubblica amministrazione a discutere pubblicamente e preventivamente la politica culturale che intende perseguire e la distribuzione delle risorse tra i vari progetti, quella cosa che va sotto il nome di «bilancio pubblico partecipato». Mi sembra che qualcosa in questa direzione a Roma lo stiate facendo. Alle forze politiche con le quali possiamo dialogare dobbiamo porre questa rivendicazione come scambio politico. 
Un suggerimento che posso dare è quello di leggere le scelte di politica della cultura all’interno dell’«economia dell’evento» e della sua filiera non perché questo è il modo di fare buona cultura, ma perché questo è il modo in cui il sistema capitalistico oggi fa cultura, cioè come una leva per mettere in moto risorse che toccano diversi settori della vita economica, dal turismo al mondo assicurativo, senza trascurare un consistente settore artigianale-operaio. 
In cerca di socialità 
Parlando con le persone e soprattutto dialogando con tanti freelance all’estero – il network internazionale è una risorsa indispensabile non solo ad un’associazione ma a qualsiasi knowledge worker – abbiamo notato un forte cambiamento nella mentalità  dei lavoratori autonomi delle professioni intellettuali, che sembrano voler uscire dall’isolamento tipico di chi lavora in proprio per cercare sempre di più un modo di lavorare in comune, in spazi condivisi. Il fenomeno dei co-working si sta diffondendo a macchia d’olio nel mondo, sono partiti come una nicchia del business immobiliare, ma sempre più gli utenti chiedono a queste strutture la possibilità  a) di creare competenze mediante scambio e integrazione di professionalità  diverse, b) di creare community, socialità .
Siamo convinti che in futuro questi spazi potranno essere considerati come un servizio sociale. (…) In attesa che la nostra azione sia capace di ottenere dei risultati su questo piano, direttamente politico, dobbiamo provvedere noi stessi a realizzare questo cambiamento con lo spirito di un nuovo mutualismo. La «Freelancers Union» negli Stati Uniti ci sta riuscendo, in Europa siamo ancora indietro ma qualche passo avanti si sta facendo, c’è una spinta «sindacale» e associativa di tipo nuovo.


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