Nei ricordi di De Mauro la Roma del dopoguerra

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A sei anni di distanza dalla pubblicazione di Parole di giorni lontani (il Mulino 2006) Tullio De Mauro riprende nel recente Parole di giorni un po’ meno lontani (il Mulino, pp. 196, euro 15), la narrazione lasciata interrotta al periodo dell’infanzia, e regala ai suoi numerosi e fedeli lettori la continuazione di quel racconto. Anche questa volta a far scattare il ricordo sono singole parole o espressioni che servono all’autore per rievocare il suo e il nostro passato. 
È interessante che questa operazione sia fatta da un linguista e da un lessicografo come De Mauro: talvolta chi studia la storia della nostra lingua l’analizza in modo asettico, con atteggiamento da entomologo, anche se esistono eccezioni illustri (basti pensare a Maestri e amici di Alfredo Stussi, per il Mulino, ricordato in queste pagine qualche tempo fa). De Mauro, al contrario, riesce a ricostruire la lingua, le atmosfere e la cultura di tempi ormai lontani attraverso la sola evocazione di singole parole. 
Nel libro precedente a far riaffiorare storie familiari e nazionali erano termini come cromatina, babbà , ciaccata, cozzetto, o espressioni come darsi al diavolo, dare la testa al muro, fare la siringa, per citarne solo qualcuna. In questo libro l’operazione si estende e si allarga. L’autore spiega nell’introduzione che «qui la memoria si dilata dalle parole a libri, a interi discorsi e dialoghi e, anche, a situazioni complesse e a persone e a altrui vite». I frammenti di memorie personali si mescolano continuamente con i ricordi linguistici. Il bambino De Mauro arrivato a Roma negli anni Quaranta entra in contatto con parole misteriose, che fanno rivivere ai lettori le atmosfere del tempo: dalla sigla Incis delle case popolari di piazza Verbano, che evoca pomeriggi bui in una casa di passaggio, alle scritte latine sui frontoni dei palazzi, osservate percorrendo la città  su quella che allora si chiamava circolare rossa, fino al tragico ma oscuro fonogramma che annuncia la morte del fratello maggiore. E poi c’è la parola guerra che incombe su tutto. 
Tullio De Mauro, professore amato da intere generazioni di studenti, ci riporta in un’aula universitaria, quando durante le lezioni commentava Saussure proprio partendo dalla forza evocatrice di questa parola, che per lui coinciderà  sempre, dall’esperienza dell’infanzia fino a oggi, con «la memoria visiva di quella pila di poveri corpi straziati da esplosioni e crolli» nelle strade del quartiere romano di San Lorenzo. Le parole sono dunque il filo conduttore dei capitoli che descrivono il periodo dell’occupazione tedesca di Roma e il fascismo «proto adolescenziale» del ragazzino che con gessetti e carbonella trasformava la scritta «W il re» in «W il reo» sui muri della città . 
Storie di parole ma anche storie di libri: De Mauro rievoca le letture disordinate ma formative fatte nei lunghi pomeriggi di coprifuoco nei quali passava dalle pagine di Parlo con Bruno, scritto da Mussolini dopo la morte del figlio, a quelle di Non è ver che sia la morte di Giovannino Mosca, mescolandole con la lettura di Dickens, Cronin, Steinbeck, Wiechert, Huxley, Rilke, Mann e con gli articoli del «Marc’Aurelio» e del «Pasquino». Proprio «per via di studio e di riflessione» il guscio fascista dell’allievo del liceo-ginnasio Giulio Cesare comincerà  a incrinarsi. Durante l’adolescenza conteranno altre esperienze: la redazione del giornalino di classe, le prime letture appassionate di testi di poesia, la creazione di una biblioteca scolastica, e soprattutto l’incontro con professori nuovi e diversi. 
La ricostruzione degli anni successivi alla fine della guerra diventa, negli ultimi capitoli, anche storia della scuola e dell’università  nell’Italia degli anni Quaranta e Cinquanta. Tra i momenti più importanti della formazione dello studente De Mauro vengono ricordati gli incontri con professori straordinari, capaci di fare magnifiche lezione in latino, ma anche di parlare stando in piedi e non dalla cattedra, dinanzi e in mezzo ai banchi, cosa inaudita per i tempi, e le conversazioni con intellettuali con i quali discutere di libri e di idee, passeggiando nelle strade di una Roma che non c’è più. 
Una città  meravigliosa, nella memoria di De Mauro, perché «era ancora una città  in cui nelle strade erano padroni quelli che ci abitavano e camminavano». In quella città , dove si facevano file notturne per assistere ai concerti dei grandi direttori d’orchestra, i giovani liceali come De Mauro si iscrivevano al Partito Liberale, discutevano con Pannella, leggevano Croce, Einaudi e il «Mondo», e sentivano pronunciare per la prima volta, durante una lezione, la misteriosa parola semantica. E, soprattutto, incontravano professori in grado di spiegare loro che «bisogna scrivere come mamma t’ha fatto». De Mauro ricorda di aver scoperto solo molto più tardi che quel suggerimento apparentemente alla buona era condiviso da Croce, Gentile, Lombardo Radice, Gramsci, Calogero, Calvino e don Milani, mentre l’intellettualità  italiana del tempo (e non solo di quel tempo) era «spesso tormentata dal bisogno di salire sempre un gradino più su dell’usuale nel suo esprimersi pubblico e scritto». 
Anche i nomi dei professori incontrati dal giovane De Mauro nei primi anni Cinquanta del secolo scorso nelle aule universitarie della Facoltà  di lettere di Roma evocano tempi di «lezioni impareggiabili, entusiastiche ed entusiasmanti, di linguistica storica e grande filologia». A leggerne oggi il resoconto si potrebbe correre il rischio di rimpiangere quei tempi. Ma proprio Tullio De Mauro, che ha continuato a insegnare fino a poco tempo fa, è la dimostrazione della continuità  di una concezione dell’insegnamento non finita, che da lui è stata passata ai suoi allievi e a tutti i numerosissimi studenti che hanno seguito le sue lezioni e studiato sui suoi testi. Le Parole di giorni un po’ meno lontani sono state pubblicate nell’imminenza dell’ottantesimo compleanno di Tullio De Mauro, che si celebra oggi alla Sapienza con una giornata di studio in suo onore. L’augurio per festeggiarlo è di poterne leggere presto la continuazione, per scoprire e conoscere grazie al suo racconto anche le parole di giorni più vicini.


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