Come nasce la grande opera del futuro

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Forse domani esisterà  qualcosa di simile a una scuola, a metà  fra liceo e università , nel quale per diverse stagioni, al ritmo di una all’anno, si studieranno in modo verticale e concentrato i fondamentali, che significa i nodi emotivi cruciali che regolano l’apprendimento e la produzione di conoscenza in quel particolare ambito: letteratura, architettura, scienze, musica, arti visive, economia, etc. Da lì, forse, verranno fuori i membri di un’èlite responsabile che sappia condurre questo e altri paesi meglio di come l’ha trovato. Ecco una ‘grande opera’ da provare a mettere subito in piedi – un corso di responsabilità  ispirato a tutti gli angoli del sapere, in cui la mancanza di immersione specifica si trasforma in capacità  di vedere dall’alto, per lungo tempo, con effetti solidi.
L’espressione ‘grande opera’, da non confondere in alcun modo con il triste lessico di ponti inutili e aeroporti da una sola tratta, rimanda alla grandiosa visione concepita sull’orlo della modernità  da Richard Wagner, di un mondo musicale e teatrale in cui potessero collassare in gloria arti performative e afflato sinfonico, accensione lirica stellare e meticolosa costruzione mitico-narrativa. Ma a quasi un secolo e mezzo dal Tristano e Isotta, nel 2012, quarta stagione della prima guerra economica mondiale, si può ancora parlare su un piano estetico, sociale e umano, di ‘opera totale’ ? Si deve. E bisogna farlo ampliando il ventaglio dei saperi verso ambiti inimmaginabili dal compositore tedesco – perché il futuro, che è una specie marsupiale e aggressiva, necessita di una disponibilità  curiosa, universale e sgobbona, a imparare da tutto. Ecco che la furia transdisciplinare – la più imponente novità  umanistica degli ultimi vent’anni, alimentata all’interno del cosiddetto sistema dell’arte – tasta in vitro la corda di ciò che accadrà  prima di tutti gli altri, anticipando forme, metodi, atmosfere.
Che faccia hanno, dunque, le ambizioni intellettuali giganti in un mondo governato da nani automatici, finanziari e immateriali? Come si fa a essere curiosi di tutto? E come si fa a essere abbastanza competenti e aggiornati? Come si fa a concepire una grande opera totale, globale, contemporanea e transdisciplinare, come dei Nibelunghi frantumati e indebitati, diretti da Bob Wilson, musicati da Thom Yorke dei Radiohead e Bjork, con scorci scenografici disegnati dalla matita mentalista di Matteo Pericoli, le scenografie di Italo Rota e Luigi Ontani, e magari David Byrne e Catpower come voci recitanti, e forse anche la consulenza filosofica di Dieter Sloterdik e Franca D’Agostini, ma solo insieme a un potente script di Emanuele Carrère e Jennifer Egan, in pieno dialogo con enormi fotografie di scena scattate da Armin Linke, rese vivissime e biodinamiche grazie all’ennesimo impressionante lavoro tecnologico messo a punto da un lab del M.I.T., magari sotto l’egida della grande curatrice Ute Meta Bauer che per anni ha diretto a Boston il dipartimento Art Culture & Technology?
Una magnifica confusione, forse. Ma proprio a latere del tema che ispira la nuova edizione di Poiesis, uno dei festival italiani che meglio amalgama pratiche distanti fra loro, è urgente fissare qualche punto critico sulle gioie e i fallimenti della cosiddetta transdisciplinarietà . Anzi – uno su tutti. Chi appartiene a discipline diverse finisce per usare il cervello in modo percettivamente diverso: questo vale soprattutto nei criteri di giudizio tra ciò che vale e ciò che non vale, e nella selezione delle parti di mondo che diventano linguaggio. Un architetto funziona in modo differente da un musicista. Ci sono codici da capire, da decrittare, da intuire: cogliere i codici altrui richiede fatica, e una certa ossessione per le mete illimitate. Ecco perché quest’anno, a Fabriano, indagherò in pubblico con un maestro del non-limite come Rem Koolhaas il suo demone letterario e di scrittura. Ecco perché sulle basi di questo festival bisognerebbe lanciare a Fabriano il primo modello di liceo radicalmente basato sul dialogo complesso tra le discipline, e poi la prima ecole des hautes etudes improntata agli stessi principi. Ecco come si può trasformare un evento in un seminario senza fine.


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La città  giusta è il titolo della tesi di dottorato che Ugo Ischia discute nel 1996. Ha quarantuno anni e si accinge a dividere il suo impegno di urbanista tra l’insegnamento presso l’Istituto Universitario di Architettura di Venezia e la professione, oltre al lavoro di redattore alla rivista «Urbanistica».

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