Primavere arabe

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MUSCAT – Arrivano al tramonto tra i palmizi, alla spicciolata, dalle sponde dell’Oceano indiano. Portano la tunica bianca chiamata dishdasha e un copricapo dello stesso colore, il massar. Con loro anche bambini, e donne velate, bellissime, attirate anch’esse dalla calamita di un grande palazzo marmoreo color miele. Eppure quel parallelepipedo circondato da archi a sesto acuto non è una moschea: non c’è nessun minareto e non è ora di preghiera. Dall’interno escono brandelli di Carmen, Bolero e Nabucco, i suoni sovrapposti di un’orchestra che si prepara. Le porte sono aperte su un foyer, presidiate da guardie in djellaba verde chiaro, turbante e pistole alla cintola lunghe come scimitarre. Sopra il porticato una scritta: “Royal Opera House”. Il fiammante Teatro dell’Opera dell’Oman, l’unico della penisola arabica.
C’è un Trovatore tutto italiano in programma, con l’orchestra Cherubini, la regia di Cristina Muti e la direzione di Nicola Pascoschi. Nei corridoi dei camerini, gorgheggi di cantanti, andirivieni di tecnici indiani in tunica blu, e i resti della scenografia della Turandot che l’ottobre scorso ha inaugurato questo tempio musicale con la direzione di Placido Domingo e la regia di Franco Zeffirelli. A venti minuti dall’inizio il teatro è già  pieno. Sul retro del biglietto, a caratteri microscopici, prescrizioni svizzere. Puntualità , chiusura delle porte dieci minuti prima, costume tradizionale per gli omaniti, cravatta per gli altri. Niente jeans, niente T-shirt e scarpe da ginnastica. Vietato fumare e fischiare. Vietati i telefonini accesi e le foto. Il teatro è proprietà  privata dal sultano, il misterioso Qabus Bin Said Al-Said che raramente si svela, il regnante più melomane del mondo.
È qui, in questo palazzo favoloso, che si fa i conti con un fenomeno nuovo e impressionante: l’esplosione di opere e sinfonie d’occidente nella terra del Corano, e la grande fuga di orchestre ed eventi musicali verso i ricchi teatri del Golfo, tra minareti e torri petrolifere, in una delle terre più “calde” del Pianeta. Li senti suonare dappertutto. A Dubai l’orchestra filarmonica diretta da Philipp Maier e il progetto di un’Opera House di grandezza planetaria, ipertecnologica e a forma di duna. Ad Abu Dhabi il festival di musica classica che ha già  ospitato i New York Philarmoniker e la Wiener Staatsoper. A Doha il lussureggiante Auditorium voluto dalla moglie di sceicco, la bellissima Mazah Bint Nasser, fondatrice dell’Orchestra filarmonica del Qatar. Terre d’approdo specialmente per italiani, figli di un Paese che fu centro della musica mondiale e oggi non ha più un soldo per restaurare i suoi teatri. Ma è l’Oman il centro di questa mutazione.
Nella fossa d’orchestra ottoni, violini e tamburi si preparano generando quella confusione polifonica che il nostro orecchio misteriosamente non percepisce come dissonante. Un mio vicino arabo che ricorda Omar Sharif spiega in ottimo inglese che, quando al Cairo fu messa in scena la prima volta l’Aida per l’inaugurazione del canale di Suez, il sultano disse che il meglio della performance era stata, a suo avviso, proprio quella precedente all’ingresso del direttore. «Da allora – sorride l’omanita – quel momento viene chiamato, anche in occidente, “la musica del sultano”». E qui, che altro potrebbe suonare l’orchestra italiana, in casa di un regnante pazzo per la lirica, suonatore di organo e liuto, in questo interno super-tecnologico di ebano, marmi, intarsiature dorate e lumini quasi natalizi? Che cosa se non musica del sultano?
In platea gli arabi, mescolati agli europei di casa da queste parti, non sono cammellieri o pecorai. L’opera è ancora un fatto di élite. Ma gli omaniti in sala non sono nemmeno i volgari arricchiti del Dubai, o i sauditi che magari in privato adorano Mozart, ma in pubblico lo rifiutano per paura degli imam. Qui è un’altra cosa: la musica è cultura diffusa. E non importa se il gran muftì del Paese, lo sceicco Ahmed bin Hamad Al-Khalili (uno che considera cicloni e tsunami una conseguenza dei peccati della sua gente), ha bollato come «inaccettabile» per un musulmano mettere piede all’Opera House. E anzi, qui la dichiarazione ha provocato tempeste tra i blogger, per nulla intimiditi dalla scomunica. Il tassista che mi ha portato in centro dall’aeroporto ha subito chiesto se conoscevo il Teatro Lirico. Ne andava fiero.
Finisce l’ouverture, si apre il sipario e il melodramma si scatena. Il coro tuona “Sia maledetta la strega infernal”, poi ecco le note immortali della zingarella seguite in traduzione araba e inglese su mini-schermi davanti alle poltrone. «Il Trovatore ricorda la cultura zingara dei nostri beduini», commenta Nasser Al-Taì, che nel teatro è responsabile dei rapporti col pubblico omanita, e tutto indica l’ansia del “Principe” di gettare ponti fra culture piuttosto che occidentalizzare brutalmente il Paese come i suoi vicini emiri. In Oman gli squilli delle fanfare si mescolano ai canti del deserto fatti di pifferi, sonagli e tamburi, le cornamuse scozzesi competono con le danze delle sciabole e il rotear dei pugnali Khaliqi.
Qui la “musica del sultano” non sta chiusa nei teatri ma si sente per le strade, echeggia nelle scuole e persino nei cortili delle caserme, che sia europea, asiatica o africana. Un altro mondo. Il muezzin canta con discrezione, non ti massacra i timpani, e già  acusticamente si avverte che l’estremismo wahabita è lontano. La primavera araba qui sembra essersi giocata in musica. Una musica entrata così capillarmente nelle istituzioni da diventare strumento politico. È il capolavoro di questo sultano timido, chiacchierato e senza mogli, salito al potere per restarci solo pochi anni, e invece saldamente in sella da quarant’anni. Zubin Mehta, che fu tra i pochissimi a vederlo, lo definisce un «great music lover», e il cantante polacco Daniel Kotlinski parla di un uomo che vive per la musica e si è già  comprato tre organi nella smania di migliorare. Tra il popolo c’è chi ha protestato per i lussi del nuovo teatro, mesi fa ci sono stati persino scontri con due morti, ma alla fine il sultano ha messo in cantiere un piano contro la disoccupazione e ora l’Oman pare, in questi tempi turbolenti, il Paese più tranquillo del mondo musulmano.
Ma il bello è che in Oman non vedi solo formazioni straniere. Il Paese ha una sua orchestra sinfonica e bande militari, anche femminili, che vincono concorsi internazionali. L’etnomusicologo egiziano Issam El-Mallah, direttore del teatro, ricorda che «in trent’anni le forze armate sono passate da appena tre a ben 2500 suonatori provetti», e che «l’Opera House è solo l’ultimo scalino di un lungo processo». L’esercito del sultano ha i migliori carri armati ed elicotteri dello spazio arabo, ma il controllo della musica sembra interessargli di più. Lo stesso direttore dell’orchestra sinfonica di Muscat è un colonnello. Un caso unico al mondo.
Il violinista Luca Blasio, chiamato dall’Accademia di Santa Cecilia a migliorare la qualità  degli archi omaniti, ricorda gli emozionanti concerti che le orchestre locali tengono nelle scuole, davanti a bambini stupefatti e desiderosi di imparare. E pare che il sultano i bambini più dotati se li porti addirittura a casa, come un despota rinascimentale, ne faccia quasi dei giannizzeri votati alla sua passione. Novanta si dice siano i giovanissimi – maschi e femmine – che Qabus Bin Said alleva senza badare a spese nella sua reggia per farne il nerbo della musica araba del domani.
Sulla riva dell’oceano, sotto stelle grandi come noci, Cristina Muti è felice e rievoca il suo contatto col mondo arabo e sogna nuove meraviglie. «Ero a Meknes, in Marocco, e dirigeva mio marito. A un tratto ho visto che alcune donne del posto, rompendo i divieti del locale buoncostume, s’erano sedute sotto il palco con i loro neonati, allattandone alcuni sotto la luna, quasi in stato di ipnosi. Un’immagine indimenticabile». Anche Issam El-Mallah sogna, vorrebbe ospitare un concerto con un’orchestra straniera e un grande solista arabo. Ma è già  felice dei risultati conseguiti finora: da ottobre a oggi sempre il tutto esaurito, con spettatori arabi in crescita continua. 
Vento leggero, sciacquio tra le mangrovie, profumo di bouganvillee, poi arriva la preghiera notturna del muezzin. E solo allora, sul Paese dei sultani suonanti scende il silenzio.


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