Quando la poesia diventa pittura

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Nel primo secolo avanti Cristo, quando scrisse una delle sue massime più intriganti — Ut pictura poesis, la poesia è come la pittura —, il poeta latino Orazio non poteva immaginare che quelle sue parole avrebbero costituito, venti secoli dopo, la base per una discussione ancora aperta sul rapporto specifico tra poesia e arti visive e, più in generale, tra linguaggi verbali e comunicazione mediatica.
Ciò che voleva dire Orazio era in un certo senso condivisibile anche dagli uomini della sua epoca, giacché un buon poeta riesce a dare concretezza alle cose attraverso quell’astrazione verbale che dalle cose è apparentemente distante, così come un buon pittore può esprimere con i suoi mezzi quell’aura concettuale che sembra più connaturata alle qualità  della parola.
Tra poesia e arti visive, almeno nella tradizione occidentale, rimane sempre, e comunque, un certo distacco drammatico che, tra una pennellata e l’altra, porterà  Michelangelo a scaricare le tensioni della Sistina scrivendo i suoi sonetti a margine di abbozzi e disegni.
Certo, anche nell’antichità  non pochi poeti avevano gettato ponti tra scrittura e pittura, componendo i loro versi secondo la sagoma dell’oggetto descritto a parole. Sono fin troppo citate, a questo proposito, la Siringa di Teocrito (a forma di zampogna) o la Scure di Simmia da Rodi, dimenticando il ben più suggestivo Altare di Dosiade o il Nido di rondine attribuito a un non meglio identificato Bizantino Rodio.
Saranno gli incunaboli di quelli che, nel Novecento, Guillaume Apollinaire chiamerà  Calligrammi, «la via più breve», secondo il poeta, «per costringere l’occhio a una visione globale della parola scritta».
Non è su queste faglie «avanguardistiche», d’altra parte, che sarà  misurato nei secoli il rapporto di affinità  tra la poesia e la pittura; quanto su un più prevedibile accostamento del testo visivo al testo verbale come illustrazione o commento. Se si guarda la Divina Commedia di Gustave Doré, per esempio, è fin troppo evidente che da un lato la parola (quella di Dante) domina sovrana, mentre dall’altro c’è un cameriere più o meno geniale che con le sue tavole cerca di dare corpo ai versi del sommo poeta. In ogni caso, tutto si svolge su piani separati: sul primo il verbo creatore, sul secondo l’immagine servile che fa appello a tutti gli strumenti della retorica per compiacere la parola regina.
Solo in rare occasioni i conti tornano: come avviene, un caso fra tutti, per il Dà¼rer dell’Apocalisse di San Giovanni, dove la mano del grande tedesco non fatica più di tanto a tener testa alla forza visionaria dell’Apostolo. 
E, d’altro canto, anche davanti a prove così potenti, non verrà  mai meno il pregiudizio del Foscolo, secondo cui soltanto il poeta è dotato di immaginazione creativa, mentre il pittore o lo scultore dovranno accontentarsi di una capacità  imitativa che al massimo consente loro di copiare il mondo, mai di crearlo. Come dire che il Giudiziomichelangiolesco è condannato a non raggiungere le vette o gli abissi dell’Inferno dantesco. Sciocchezze umanistiche, ma sciocchezze.
Senonché tra Otto e Novecento — con la rivoluzione semiologica del cinema e dei fumetti, e via via degli altri media, dove i codici della comunicazione si fondono e si confondono — accade ciò che nessuno aveva previsto: si comincia a intravedere una debolezza della parola là  dove un tempo se ne contemplava la presunzione e l’arroganza. Anche i poeti sono chiamati a dubitare del loro strumento privilegiato, che è appunto il verbum, la sostanza del dire e del vivere. 
La reazione sarà  molteplice e varia. Alcuni, come il Mallarmé di Un coup de dés, useranno la pagina esattamente come il pittore usa la tela: una superficie bianca trafitta da parole dislocate con criteri rigorosamente spaziali. Altri, come Marinetti e i suoi futuristi, aggiungeranno alle parole macchie e onomatopee leggibili in tutte le lingue, un po’ come le forme e le linee dei quadri che non hanno bisogno di traduzione. Altri ancora (e siamo alla poesia visiva di Ketty La Rocca, Miccini o Kolar) porteranno il loro dubbio fino alle estreme conseguenze, rinvigorendo la parola con altri segni estratti dall’universo della comunicazione mediatica, come fotografie, grafici e caratteri di giornale, con l’intento di rifondare per questa via la tecnica dadaista del collage.
Non si tratta, tuttavia, di un percorso a senso unico. Se è vero, infatti, che i pittori più legati alla tradizione si fanno a loro volta un po’ poeti, decorando con scritte spesso inutili i loro sgargiantissimi quadri, è non meno vero che i poeti con vocazione più schiettamente innovativa ripartiranno dalla pagina mallarmeana o dalla tela imbiancata di Piero Manzoni, mentre gli artisti concettuali di più stretta osservanza, come il gruppo inglese di Art & Language, costruiranno le loro opere principalmente con le parole, abolendo tutto ciò che sa di pittura.
È in questa ottica che va esaminato il cammino di un poeta-cineasta come Cocteau e, soprattutto, di un poeta eretico come Pasolini, il quale, pur restando fedele alle terzine delle Ceneri di Gramsci — forse per odio verso le neoavanguardie —, alla fine scavalcherà  il tanto detestato Sanguineti per consegnarsi al cinema. Indubbiamente la più visiva di tutte le arti, grazie alla quale, Dreyer e Pasolini permettendo, non si sa mai dove finisce la parola e dove comincia l’immagine.


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