Gilardi, tensioni dell’arte tra società  e natura

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Piero Gilardi, nato a Torino nel 1942, nonostante le sue molte risonanze artistiche con l’Arte Povera, ha fatto un percorso tutto suo, sfidando l’interattività  della coscienza di ogni spettatore. Adesso al Castello di Rivoli, a cura di Andrea Bellini, va in scena il suo passato e il suo presente nella rassegna Effetti collaborativi 1963-1985 – quei ventidue anni appunto – in una personale che muove i primi passi sui «tappeti-natura», s’impenna fra i padiglioni di un ospedale psichiatrico e si rinnova alla luce delle biotecnologie, all’interno dell’esperimento del PAV, parco di arte vivente unico nella sua specie. 
Un outsider vero, Gilardi, che ha stretto un «patto relazionale» con quel cittadino globale di cui molto si parla in saggi teorici e filosofici e che poco si scruta nella sua anima. Il dialogo è qui messo in scena anche dalle «Scatole viventi», opere che suggeriscono legami eccentrici tra personalità  distinte: è stato lo stesso Gilardi a scegliere i lavori da esporre, tutti realizzati da artisti con i quali ha avuto rapporti di collaborazione nel corso degli ultimi cinquant’anni, da Pistoletto, a Zorio, fino a Oldenburg e Richard Long. A settembre, la mostra approderà  al Van Abbemuseum di Eindhoven e a gennaio sarà  al Nottingham Contemporary.
Cosa ti ha spinto a uscire dai confini dell’arte museale per riversarti nella società ?
Nella tensione politica rivoluzionaria degli anni intorno al 1968, in tutto l’Occidente una moltitudine di giovani artisti operava all’interno delle lotte studentesche e pacifiste. Anche a Torino gli artisti della nascente Arte Povera condividevano questo clima politico sul piano culturale e lavoravano all’insegna di un concetto chiave dirompente: l’arte deve entrare nella vita. Questo predicato significava che l’arte doveva rompere con il formalismo del costrutto estetico per trasformarsi in azione nel vivo dei vissuti sociali, come si vide nelle Azioni povere nel corso del Festival di Amalfi (ottobre ’68) e nell’allestimento delle mostre di Op Losse Scrhoeven allo Stedelijk di Amsterdam e When attitudes become form alla Kunsthalle di Berna. Tuttavia nel ’69 mi resi conto che questo slancio dei nuovi artisti nel sociale non andava a fondo sulla questione politica ed esistenziale, mantenendosi in una sorta di separatezza corporativa. Decisi così di fare un ulteriore passo partendo dall’idea che la vita era profondamente alienata dai rapporti di potere e che per portarci dentro la libertà  dell’arte occorreva prima liberarla dall’oppressione e quindi partecipare alla lotta rivoluzionaria nella società .
Uno dei primi luoghi da te incontrati lungo questo percorso di consapevolezza sono stati gli ospedali psichiatrici….
Nei manicomi erano reclusi uomini e donne che vivevano allora la peggiore delle condizioni oppressive del sistema capitalistico occidentale e questa contraddizione era emblematicamente esplosiva e omologa a quella delle minoranze razziali. Ma la particolarità  della mia esperienza nel movimento dell’antipsichiatria era dovuta al fatto che nei «matti» la ribellione sociale era intimamente intrecciata a una primordiale e tellurica creatività  (l’Art Brut) che fuori da ogni schema antropologico alludeva al diritto di tutti e di ciascun a esprimere artisticamente le comuni sofferenze e bisogni.
Credi ancora che l’arte possa essere così propulsiva politicamente?
Attualmente, c’è molta arte politica in giro, per la Biennale e nel mondo; basti pensare alla recente mostra della colombiana Doris Salcedo al Maxxi di Roma. La contraddizione di oggi mi pare sia che gran parte di questo lavoro è come separato dalle comunità  sociali oppresse, mentre negli anni ’60 e ’70 c’era una reale condivisione tra gli artisti e i gruppi sociali in lotta. L’odierna denuncia delle ingiustizie e anche della «schizofrenia» del potere biopolitico del post capitalismo attraverso il lavoro di molti artisti è indubbiamente utile, ma presenta due aspetti contraddittori: da una parte, è sbilanciata troppo sull’aspetto della denuncia e di conseguenza rimuove la rappresentazione della lotta antagonista e organizzata; dall’altra, la canalizzazione di questa denuncia nei contenitori museali, nel mercato artistico e nei media ne depotenzia la verità  e la forza. Ne limita il significato che dal piano politico effettuale passa al solo piano etico-testimoniale.
Società  e natura sono temi che si sono sempre compenetrati potentemente nel tuo lavoro…
L’intreccio nel mio lavoro di temi sociali e naturalistici è un dilemma che trova spiegazioni e soluzioni nel dibattito attorno alla omologia di crisi antropologica e crisi ecologica. Negli anni ’60 natura e cultura costituivano una coppia oppositiva e antinomica, mentre oggi il pensiero dei movimenti «benecomunisti» unifica l’affermazione dell’Interculturalismo a quella dell’Internaturalismo. Riscontriamo quindi una continuità  nel processo ideativo a cui ho partecipato, in questo mezzo secolo di lavoro, a partire dalla esorcizzazione della morte della natura nei Tappeti degli anni ’60 alla pratica militante del Critical Art Ensemble americano che nel Parco d’Arte Vivente di Torino si sta realizzando, anche con la mia partecipazione. L’azione New Alliance, per esempio, consiste nel trapiantare nottetempo una specie vegetale protetta in uno spazio urbano, destinato a essere invaso da un centro commerciale, puntando a farlo diventare invece un parco urbano socializzante, in altre parole un bene comune autogestito.
Hai sempre puntato sull’interattività  e non sulla contemplazione passiva di un’opera. Perché?
Quella della immersione fisica delle persone del pubblico nell’evento artistico è senz’altro una caratteristica fondante dell’arte relazionale, ma l’aspetto più importante mi pare che sia la generatività  sociale di questo tipo di situazioni artistiche. Una esperienza di arte relazionale va vista come un punto di partenza di percorsi plurimi ma solidali di azione politico-culturale: si lotta per una conversione ecologica dell’attuale modello di sviluppo della società  neoliberista globalizzata.
Puoi descriverci come sta andando avanti l’attività  del PAV?
L’esperienza del PAV si sviluppa in un processo generativo della bio-arte che è intrinsecamente relazionale oltre che ecologista. Quest’anno il focus dell’Art Program, individuato non da un «direttore artistico» ma dai seminari teorici con i frequentatori del PAV, è L’ethos del vivente. Questo concept sta dando luogo a molteplici esperienze artistiche la cui «filosofia» consiste nel considerare società , cultura e natura un tutt’uno, cioè una dimensione orizzontale che dissolve l’antinomia tra umanità  e biosfera.


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